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 2020  maggio 12 Martedì calendario

Parla il portavoce del gruppo terrorista Al Shabaab

«E perché mai avremmo dovuto maltrattarla? Silvia Romano rappresentava per noi una preziosa merce di scambio. E poi è una donna, e noi di Al Shabaab nutriamo un grande rispetto per le donne». È grazie a un politico di Mogadiscio che riusciamo a raggiungere al telefono Ali Dehere, portavoce del gruppo terrorista Al Shabaab responsabile di decine di spaventosi attentati con cui da una quindicina d’anni funesta la Somalia. In nome di questa spietata organizzazione dell’estremismo islamista, Dehere rivendica il sequestro della ragazza che chiama con il suo nome e il suo cognome italiani, e non il nuovo nome da convertita all’Islam, Aisha. Il portavoce confessa poi che parte del riscatto pagato per la sua liberazione servirà a comprare armi per la jihad. Prima dell’intervista premette che ad alcune domande non potrà rispondere «per motivi di sicurezza». Poi aggiunge: «Abbiamo fatto di tutto per non farla soffrire, anche perché Silvia Romano era un ostaggio, non una prigioniera di guerra».
Qual è la differenza?
«I prigionieri di guerra li passiamo per le armi, esattamente come fa l’esercito somalo quando cattura un soldato di Al Shabaab. Prima di giustiziare i prigionieri, le truppe di Mogadiscio li torturano per farli parlare, per estorcere tutte le informazioni possibili sulle nostre postazioni strategiche o sulla struttura di comando del nostro gruppo. Ma i nostri soldati sono addestrati anche a soffrire, perciò molti muoiono sotto tortura senza rivelare nulla. Noi invece non dobbiamo torturare nessuno, perché sappiamo tutto, avendo a Mogadiscio infiltrato i nostri uomini in ogni istituzione, ministero, partito politico e perfino nell’esercito somalo».
Perché è durato così tanto il sequestro di Silvia Romano?
«No comment».
Perché, come ha raccontato lei stessa, avete cambiato diversi nascondigli?
«Siamo in guerra e i droni americani e l’artiglieria pesante keniana non bombardano soltanto le nostre postazioni militari ma anche i nostri i villaggi e le nostre città, provocando un gran numero di vittime civili. Ogni ostaggio è un bene prezioso, quindi appena c’era il minimo rischio che la zona dove tenevamo nascosta Silvia Romana era diventata un possibile bersaglio per i nostri nemici, sceglievamo un altro nascondiglio».
A quanto ammontava il riscatto?
«No comment».
Che cosa farete con quei soldi?
«In parte serviranno ad acquistare armi, di cui abbiamo sempre più bisogno per portare avanti la jihad, la nostra guerra santa. Il resto servirà a gestire il Paese: a pagare le scuole, a comprare il cibo e le medicine che distribuiamo al nostro popolo, a formare i poliziotti che mantengono l’ordine e fanno rispettare le leggi del Corano».
Quante persone hanno partecipato al rapimento?
«Tante».
Può essere più preciso?
«Decine di persone».
Il rapimento della cooperante italiana è stato organizzato dai vertici dell’organizzazione?
«No, c’è una struttura in seno ad Al Shabaab che si occupa di trovare soldi per far funzionare l’organizzazione, la quale poi li ridistribuisce al popolo somalo. È questa struttura che gestisce le diverse fonti d’introiti».
Silvia Romano ha confessato di essersi convertita senza costrizioni.

«Perché ha sicuramente visto con i suoi occhi un mondo migliore di quello che conosceva in precedenza».
Dall’interno della cella dove la tenevate rinchiusa?
«Non mi risulta che sia sempre stata segregata».
Non crede che si sia convertita anche per opportunismo, perché da musulmana rischiava forse meno che da cristiana. O magari perché vittima della sindrome di Stoccolma, che è quella forma di attaccamento che l’ostaggio prova nei confronti dei rapitori?
«Da quanto mi risulta Silvia Romano ha scelto l’Islam perché ha capito il valore della nostra religione dopo aver letto il Corano e pregato».
Con questo rapimento Al Shabaab ha raggiunto un duplice obiettivo, perché oltre ad avere intascato diversi milioni di dollari, ha guadagnato un forte ritorno di immagine, per una volta senza spargimento di sangue.
«Finora siamo sempre stati etichettati come "terroristi". Mi pare una definizione riduttiva per Al Shabaab».
Come vi considerate?
«Controlliamo gran parte del Paese, soprattutto nelle aeree rurali. Ma siamo presenti anche nelle periferie delle città. Eppure non siamo riconosciuti dalla comunità internazionale, forse perché vogliamo che la Sharia sia legge anche a Mogadiscio e perché chiediamo che le truppe dell’Amison, la missione Unione africana in Somalia lascino il Paese».
Chi sono i vostri principali nemici?
«Anzitutto la classe politica corrotta che governa la capitale e che senza la massiccia presenza delle truppe straniere e senza i generosi aiuti degli Stati Uniti spazzeremmo via in due giorni. Ma diamo anche la caccia a tutti i traditori della jihad, che sono quei vigliacchi che per paura rinunciano a combattere».
Dalle testimonianze di quei "traditori" risulta che avevate loro inculcato l’idea che per andare in paradiso è necessario farsi saltare in aria in un mercato o sgozzare un poliziotto. E’ vero?
«Sono dei rinnegati».
A proposito del rispetto degli Al Shabaab nei confronti delle donne, nel 2011 rapiste in Kenya la francese Marie Dedieu, 66 anni, malata di cancro e paraplegica, che morì durante il sequestro.
«È vero, quel rapimento finì male. Ma non volevamo ucciderla».
E come giustifica il massacro dei 148 studenti nel campus di Garissa nel 2015 o quello degli oltre cinquecento civili in un mercato di Mogadiscio due anni dopo?
«Ognuno combatte la guerra con i mezzi di cui dispone. Gli Stati Uniti hanno i droni, noi i kamikaze».
Com’è possibile che Al Shabaab ancora controlli l’80% del Paese pur avendo contro l’aviazione americana e i 20mila uomini dell’Amison?
«Perché nessuno viene a cercarci sul territorio. Non vengono né i soldati dell’Uganda e del Burundi dell’Amison né vengono le truppe somale che sono male armate e sotto pagate. Tutti credono di controllarci, quando in realtà siamo noi che li assediamo».