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 2020  maggio 12 Martedì calendario

La versione della fondatrice della onlus di Silvia Romano

«Certo che so chi ha tradito Silvia», sorride amaro Lilian Sora, fondatrice della Onlus Africa Milele con cui collaborava Silvia Romano: «Ma l’ho detto a familiari e inquirenti e basta. Ho fatto le mie indagini, non per cercare di liberare Silvia ma per capire cosa fosse successo. E penso di averlo scoperto». Lilian, 42 anni, è in lockdown nel suo appartamento a Falcineto Castracane, tra campi di grano e capannoni nell’entroterra di Fano. Accanto alla porta finestra c’è la mattonella con scritto "Africa Milele", l’appartamento modesto nella casa a schiera è anche sede dell’associazione. Nel giardinetto, Mambo e Mapenzi abbaiano a squarcia orecchie, giocando con una ricciolina di tre anni «figlia mia e di Joseph, il masai responsabile della sicurezza nella sede di Chakama».
La sicurezza, sostiene Lilian, a Chakama c’era: «Lo so, ci hanno buttato addosso tanto fango ma la protagonista ora è Silvia e risponderà lei, sono sicura».
Ma ora Silvia è libera, e i familiari hanno preso le distanze dalla Onlus. «Davvero? Per tramite dei volontari mi sono arrivate parole carine, da parte di Silvia. Dovremo assolutamente parlare, in questo anno e mezzo anche io mi sono avvicinata all’Islam. Suo papà non l’ho mai conosciuto, sono separati e io parlavo con la mamma, che non sapeva neppure dove si trovasse esattamente sua figlia in Kenya. Non avevamo i numeri l’una dell’altra, evidentemente Silvia non lo riteneva necessario... strano no? Se stavo zitta per rispettare il loro dolore dicevano che me ne infischiavo, se parlavo di Silvia mi dicevano di rispettare il silenzio per le indagini».
Quello di Lilian per il Kenya è un amore che viene da lontano: «Sono stata 17 anni impiegata in una software house. In vacanza a Malindi ho visitato l’entroterra e mi sono innamorata dell’Africa vera. Delle altre onlus non ci fidavamo, e con amici abbiamo deciso di fondarne una e ci siamo concentrati su Chakama e i suoi bambini. Abbiamo fatto anche errori: volevamo creare un orfanotrofio, ma lì i bambini soli vengono allevati da famiglie allargate, serve altro. Se vuoi fare del bene devi sapere come. Ne abbiamo salvate tante, vite, da allora».
L’incontro con Silvia è nel 2018. «Ci ha contattati sulla pagina Facebook, che ora sta facendo record di aspiranti volontari. Silvia voleva fare un periodo in Kenya dopo la laurea e aveva scelto due onlus. Prima è andata sulla costa, a Liconi, con l’altra: quella è zona rossa, non Chakama. Poi ci siamo date appuntamento a Malindi. Lei era già ambientata, me la ricordo con le treccine... Ma non sapeva che l’aspettava un’Africa diversa, la vera Africa». Non sapeva neanche che l’aspettavano la Somalia e la lunga prigionia.
Chakama è «un’Africa rurale non ancora rovinata dal turismo, in cui non c’è neanche l’elettricità e per anni ci siamo fatti la doccia con le taniche. I cellulari li caricavamo nel negozietto di fronte con un piccolo compenso. Da un po’ il fotovoltaico accende una lampadina nelle camere e nella turca. La sera è buissimo, e i cancelli si chiudono tassativamente alle 22. Dentro, con i volontari, dorme sempre il guardiano masai. Il giorno che incontrai Silvia a Malindi, ero con le mie figlie: Silvia andò poi a Chakama con il matato , l’autobus di linea, insieme a Irene. È mia figlia, che ha 19 anni e studia cooperazione internazionale, che l’ha introdotta nel villaggio».
Viaggiare in autobus è un azzardo, per un europeo. «Ma il villaggio era tranquillo, non ci saremmo mai aspettati quello che è successo. Al massimo poteva passare qualcuno con troppo liquore di cocco in corpo, niente più, e ci pensava il masai ». Disarmato, però. «Possono avere solo il machete, la legge vieta le armi da fuoco». Mai una minaccia, dagli islamisti? «Nel villaggio sono quasi tutti anglicani, la prima moschea è nata un anno fa e ha successo solo perché dà da mangiare». Toccava al masai istruire i volontari che arrivavano dall’Italia per vivere "l’Africa vera" di Lilian. «Hanno una grande energia, è bello poterli accogliere ma uno si faceva i selfie nel campo di marijuana, l’altro lo scopri "affettuoso" coi bambini, un altro ancora... lasciamo perdere, ci domandavamo se fosse meglio avere solo cooperanti».
Ma i volontari c’erano, e non molto preparati. «La cooperazione è una laurea, se fai il volontario sai cosa rischi. Se hai paura di essere rapito non vai nemmeno in vacanza, no? Prima di partire facciamo firmare un regolamento, c’è scritto cosa puoi e devi fare e cosa no; come devi comportarti con la popolazione e con lo staff locale». Ma l’ipotesi di un rapimento o un assalto violento non era contemplata: «Non ci abbiamo mai pensato. Se conosceste quel villaggio e la sua gente capireste», dice Lilian.
Pensa a tutto il masai. Quando è stata rapita Silvia, in sede a Chakama erano in servizio ben due guardiani: «John perlustrava intorno e Joseph, il mio compagno, era appena andato via. Ne resta sempre uno solo a dormire, la sera. Sono asfissianti, i volontari italiani spesso protestano ».
Africa Milele non ha dipendenti. «Solo volontari e staff locale». Nessuno viene pagato. «Neanche i dirigenti, e mi pago io i biglietti». Mapenzie, il meticcio, fa il diavolo a quattro, ma c’è la domanda delle cento pistole: il traditore? Due volontari erano andati via da due giorni ma Lilian scuote la testa, non pensa a loro. «E neanche i masai», dice.