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 2020  maggio 12 Martedì calendario

In un pc la chiave della conversione di Silvia Romano

Con la liberazione e il ritorno a casa di Silvia Aisha Romano è cominciata una nuova storia. Abbandonata la paura, riabbracciati i familiari, bisogna capire cosa è successo in quegli interminabili diciotto mesi di prigionia nelle mani di Al Shabaab, la feroce organizzazione terroristica somala di matrice qaedista. E, soprattutto, perché è successo.
L’inchiesta per sequestro a scopo di terrorismo internazionale aperta dalla procura di Roma e dai carabinieri del Ros muove da due fatti e da un interrogativo. I fatti: la conversione di Silvia è nata su un computer, non connesso ad Internet ma dove erano stati caricati video e testi sacri dai sequestratori; in queste ore, poi, sui canali della propaganda jihadista, rimbalzano le immagini dell’arrivo di Silvia a Ciampino, sana e salva, sorridente e coperta dallo jilbab verde, incontrovertibile simbolo della conversione all’Islam. C’è poi l’interrogativo: com’è potuto accadere che una minuscola associazione di volontariato di Fano, Africa Milele onlus, abbia inviato Silvia in una delle zone più pericolose del Kenya, prevedendo misure di sicurezza — due masai col machete, messi a turno a presidiare il villaggio — a dir poco risibili? A ben vedere, il tradimento che ha consegnato Silvia ai terroristi di Al Shabaab comincia da questa domanda.

Tre casi nell’ultimo anno
Torniamo a venerdì scorso, quando Silvia viene liberata. Gli analisti del Ros e dell’Aise che da 18 mesi lavorano per liberarla non restano sorpresi alla notizia della conversione. E non perché abbiano creduto alle informazioni di un matrimonio forzato spifferate da alcune fonti sul posto («È stata costretta a sposarsi e ad avere figli»), ma perché Silvia è la terza prigioniera su tre, nell’ultimo anno, che dopo il sequestro torna a casa convertita all’Islam. È successo con Alessandro Sandrini, bresciano, liberato nel maggio 2019 dopo essere stato per tre anni ostaggio di un gruppo legato ad Al-Qaeda, in Siria. «Non è solo diventato musulmano, si è proprio radicalizzato» racconta una fonte investigativa. Ancora lo ricordano, poco dopo il rientro in Italia, ostentare con i presenti l’intenzione di pregare su un tappetino. Ed è capitato anche col padovano Luca Tacchetto, sequestrato in Mali per 16 mesi con la sua fidanzata canadese, entrambi liberati a marzo di quest’anno.
«Questo tipo di conversioni — spiega una fonte dell’Aise — di solito si consolida su tre moventi: il plagio, la convenienza (la speranza, cioè, di ottenere un trattamento migliore da parte dei sequestratori, ndr) e la classica sindrome di Stoccolma. Ma c’è anche chi, seppur è un caso più difficile, matura una convinzione profonda». Storie talvolta assai diverse tra loro, ma che raccontano di una premeditata strategia comune: rispetto ai tempi dell’Isis e delle brutali esecuzioni pubbliche, i recenti sequestri mettono al centro, come bene prezioso perché più remunerativo in termini di immagine e di riscatto in denaro, la vita degli ostaggi. Mostrarli al mondo mentre tornano a casa in buona salute, convertiti al loro stesso Dio, è un eccellente strumento di propaganda.

Il pc senza Internet
Lo dimostra il fatto che nelle ultime ore, sui alcuni canali Telegram di islamisti attenzionati dall’intelligence, la fotografia del rientro a casa di Silvia — in aereo di Stato con il Governo italiano ad aspettarla — sia stata condivisa e commentata come un successo dai terroristi. Questo la procura di Roma lo sa bene. Non a caso sia il pm Sergio Colaiocco sia i carabinieri del Ros, oltre che sul sequestro per finalità terroristiche, è possibile che stiano indagando sull’associazione a delinquere di stampo terroristico. Quello di Silvia è stato un sequestro preordinato dal più pericoloso gruppo terroristico internazionale. I vertici di Al Shabaab hanno gestito direttamente l’operazione effettuando due sopralluoghi tra settembre e novembre 2018, quando Romano era stata una prima volta in Kenya, per valutare il momento migliore per il rapimento.
Già ai primi di novembre erano stati assoldati i bracconieri che poi l’hanno presa in cambio di soldi e armi. E anche le moto per organizzare la fuga. Lo psicologo e gli analisti che hanno incontrato Silvia sono convinti della genuinità delle sue parole quando afferma di «aver scelto volontariamente l’Islam». Rispetto agli altri ostaggi liberati, e a Sandrini soprattutto, la 25enne non mostra alcun segno di radicalizzazione. Silvia aveva il viso scoperto, sorrideva spesso, non aveva timore a guardare negli occhi gli uomini che la interrogavano, non evitava il contatto fisico. Ha ribadito più volte che la sua è stata una scelta personale, senza costrizione. È vero però che il racconto di come la conversione è avvenuta offre spunti importanti. Sono stati i carcerieri a offrirle il Corano, quando ha chiesto qualcosa da leggerle. Sono stati loro a fornirle il computer, non collegato a Internet, all’interno del quale c’è un Pdf dei testi sacri inglese-arabo (in modo che potesse comprenderli: è così che Silvia comincia a imparare la lingua) oltre a video di dottrina religiosa. «Ma c’erano anche video sulla natura e sugli animali che mi facevano compagnia», ha raccontato agli inquirenti, spiegando anche che è stato proprio davanti ai suoi carcerieri che è avvenuta la shahada, la testimonianza di fede che sancisce la conversione all’Islam.

I misteri della missione
Silvia dunque è stata sequestrata da carcerieri jihadisti. Ma — e veniamo al secondo punto attorno al quale si muove l’inchiesta della procura di Roma — nessuno probabilmente l’ha tutelata come avrebbe dovuto. Dagli accertamenti effettuati fino a questo momento è emerso chiaramente che la onlus Africa Milele, l’associazione di volontari con cui Silvia è partita per assistere i bambini in Kenya, non aveva adottato alcun protocollo di sicurezza per proteggerla: la ragazza non aveva ricevuto alcuna indicazione su come prevenire o gestire un possibile pericolo. Il posto di polizia più vicino dal villaggio di Chakama, nella contea di Kilifi, dove è stata rapita, dista tre ore di auto. E a tutelarla avrebbero dovuto pensarci due masai che lei praticamente non ha mai visto. La fondatrice della Onlus, Lilian Sora, ha sostenuto, sotto interrogatorio, alcuni dettagli sulle presunte misure di precauzione adottate che poi non si sono poi rivelate vere. Precauzioni che altre organizzazioni più serie, da più tempo in Kenya, hanno predisposto, come è stato accertato dai carabinieri del Ros. Non a caso sin dalle settimane immediatamente successive al sequestro, la famiglia Romano ha interrotto ogni rapporto con Africa Milele. La onlus di Fano, ora che tutto è finito, avrà molto da spiegare.