il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2020
Un giovane su tre è iperconnesso
Per lavorare o studiare siamo online. Ma anche per guardare una serie tv, chattare con gli amici, sbirciare sui social, fare shopping, giocare ai videogames, informarci sulla pandemia. Sempre, tutti, connessi: difficile capire se lo siano più i giovani o gli adulti. A marzo il traffico dati su rete fissa è salito del 64%, in Italia. Il 35% dei ragazzi è online tra le 11 e le 14 ore al giorno: prima del lockdown solo il 15% (meno della metà) sfiorava le 10 ore sul monitor. Sono i numeri raccolti dall’Associazione nazionale per le dipendenze tecnologiche (Di.Te) con skuola.net. L’indagine fotografa la quarantena di oltre 9 mila ragazzi tra gli 11 e i 21 anni. “Già prima si abusava, ora la dipendenza digitale può esplodere”, avvisa Giuseppe Lavenia, presidente Di.Te. È una questione di chimica: online il corpo produce dopamina e endorfine, ormoni dell’assuefazione. La dopamina cresce con la ricerca di nuove informazioni, le endorfine salgono con le interazioni sui social. Quando aspettiamo una notifica o navighiamo senza meta (come lo zapping tv), se aggiorniamo a ripetizione la pagina della posta elettronica, “messaggiamo” in chat, su Facebook o Twitter, la dopamina dà una strana gratificazione: perciò è difficile “staccare la spina”. “Come col gioco d’azzardo e la cocaina, internet può dare dipendenza”, dice Lavenia: “Circa il 10% della popolazione, con la quarantena, rischia l’assuefazione”.
La compulsione da web, per l’Organizzazione mondiale della sanità, ad oggi non è una patologia. Lo è invece l’internet gaming disorder, il disturbo che impedisce di premere off al videogioco. A maggio 2019 l’agenzia Onu ha ufficialmente riconosciuto come malattia la dipendenza da “consolle”: ma 10 mesi dopo, col pianeta in quarantena, il dietrofront. “Incoraggiamo tutti a #PlayApartTogether”, scriveva su twitter, il 28 marzo, l’ambasciatore dell’Oms Ray Chambers. Cioé: il videogioco fa bene perché mantiene le distanze sociali, pazienza se può dare assuefazione. “L’abuso del gioco d’azzardo è stato etichettato come ‘malattia’ solo 2 anni fa”, dice Giuseppe Avenia: “Nemmeno il ‘ritiro sociale’ è una patologia, ma l’anno scorso in Italia si contavano circa 120 mila Hikikomori”.
È la parola giapponese per indicare gli individui reclusi in casa: nel Sol Levante è un dramma nazionale, in Italia no. Ma la paura è che la quarantena alimenti il desiderio di clausura: “Finalmente ci stiamo riuscendo, ad indurre i nostri ragazzi al ritiro sociale”, dice con sarcasmo amaro Tonino Cantelmi. È nell’equipe della comunità Sisifo (centro di cura per le dipendenze) e insegna Cyberpsicologia all’Università europea di Roma. “Per i ragazzi, uscire dalla ‘tana’ e tornare in società sarà difficile”, mette in guardia l’esperto. Lavenia è d’accordo: “Dopo la quarantena, alcuni rifiuteranno la vita sociale e il rischio è che abbandonino la scuola”. È come dopo la convalescenza, prima di tornare alla routine serve la riabilitazione. Problema, dice Lavenia: “Nessuno aiuta i ragazzi nella Fase 2”.
La ricerca firmata Di.Te e skuola.net illustra la situazione dei più giovani: per il 90%, il web è il cemento dei legami sociali. Quasi due terzi del tempo online, infatti, è dedicato a social e chat, ma senza gratificazione: 7 su 10 si sentono soli e molti sono vittime dei bulli. Al numero verde Di.Te le richieste d’aiuto per il cyberbullismo sono salite di 5 volte, durante il lockdown. La gogna arriva su Telegram, l’alternativa a Whatsapp: “Crei un gruppo intitolato ‘Odio tizio’, col nome del malcapitato, e giù insulti da chiunque”, spiega Lavenia. L’allarme arriva anche dalla Fondazione Carolina: le segnalazioni di violenze online sono cresciute di 6 volte.
Il branco digitale è una minaccia, mentre il diluvio di news sul Coronavirus nutre ansia e depressione. Al centralino Di.Te sono aumentate anche le telefonate per via degli attacchi di panico: “Il malore coglie i ragazzi prima di cena – racconta Lavenia – dopo il bollettino quotidiano della Protezione civile sul Covid-19”. Il tempo davanti al monitor non è un lenitivo: “I ragazzi, terrorizzati dalla pandemia, cercano di farsi un’idea sul web, ma affogano nel mare di notizie”. Di internet, molti farebbero a meno.
L’indagine condotta da Di.Te e skuola.net poneva una domanda netta: “Cosa avreste fatto senza lo smartphone?”. Lavenia ha avuto una doppia sorpresa. La prima: “Ha risposto 1 ragazzo su 2 ed è significativo, il quesito aperto di solito è ignorato da 9 su 10”. Seconda sorpresa: “La metà ha risposto che avrebbe preferito la compagnia dei genitori, se solo ‘i grandi’ non fossero sempre con gli occhi sul telefono”, dice Lavenia. Secondo lui, la dipendenza tecnologica incombe più sugli adulti. Ma la conseguenza è la solitudine dei figli. Non è solo colpa dei bit, se il 77% dei ragazzi ha perso la bussola del sonno: l’ora di coricarsi e del risveglio scocca a piacimento, il 46% dorme male. Pure i pasti sono sballati: il 40% mangia quando capita.
Difficile seguire i figli se lo sguardo è sullo schermo, ma i genitori hanno l’alibi: c’è lo smartwoking, la spesa è online e sul Covid bisognerà pur informarsi. Poi lo svago con gli amici: a marzo gli italiani hanno trascorso in media 40 minuti al giorno sui social (+53% rispetto al 2019) e 28 minuti in chat (+77%). E la scappatella: “È salito del 300% – dice Cantelmi – il traffico delle chat erotiche e sessuali”. Difficile che a frequentarle siano i figli. Dopo la carne, tocca alla mente: “Oltre all sesso, cresce la spiritualità online: religione, yoga, mindfullness”, aggiunge Cantelmi. Poi una mano a carte: “Tanti ‘malati’ di scommesse, orfani dello sport, affollano i siti di poker online”, racconta Federico Tonioni, direttore del centro per le dipendenze dell’ospedale Gemelli, a Roma. “Altri scommettitori invece speculano in Borsa, sul web, perdendo in un giorno quanto si guadagna in un anno”, prosegue Tonioni, che ammette: “Spesso hanno più problemi i genitori dei ragazzi in cura dalle dipendenze”. Secondo lui il web ha reso la quarantena sopportabile, la dipendenza è frutto di un’angoscia e non si misura col cronometro: “I ragazzi hanno diritto all’iperconnessione”. Basta che nel sollevare gli occhi dal telefono, incrocino quelli dei genitori.