il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2020
“Homeland”, la serie tv sull’ostaggio che si converte
La conversione del sergente dei Marines Nick Brody, scomparso in Iraq nel 2003 e tenuto prigioniero per otto anni, è al centro di Homeland, la serie tv cult che si è appena conclusa dopo dieci anni, 96 episodi e una lunga lista di Emmy e Golden Globe.
Creata da Howard Gordon e Alex Gansa, la serie è basata sull’israeliana Prisoners of War di Gideon Raff. Nick Brody, dato per morto, ricompare nel 2011 in Afghanistan, e verrà riportato negli Stati Uniti da eroe. Carrie Mathison della Cia è l’unica a sospettare di Brody, l’unica a pensare che dietro l’alta uniforme del sergente si nasconda Abu Nazir, l’uomo al vertice di al-Qaeda. Davvero Brody si è convertito all’Islam? La risposta arriva già nel secondo episodio, quando il sergente va in garage, srotola il tappeto e s’inginocchia per pregare (riuscirà comunque a mantenere il segreto e l’aurea da eroe di guerra, tanto da venire eletto al Congresso). Ma come è possibile che Brody, da ostaggio, non solo si sia convertito ma sia diventato addirittura un radicalizzato? Per capirlo bisogna passare dai flashback con cui Homeland racconta la prigionia di Brody. Ed entrare in quei meccanismi complessi, da ribaltamento di ruoli tra vittima e carnefice, che alcune prigionie insegnano.
Durante i primi anni da ostaggio, il sergente viene torturato ma Abu Nazir lo tratta con riguardo, guadagnandosi la sua fiducia. La molla che fa scattare l’arruolamento di Brody è il trauma e la sofferenza che gli provoca l’uccisione da parte di un drone americano del figlio di Abu Nazir, Issa, a cui Brody si era legato molto insegnando inglese. Il vicepresidente Usa assicurerà in tv che nell’attacco non sono coinvolti bambini: è a quel punto che Brody giura che vendicherà la morte del piccolo. Sarà lui a scegliere liberamente la vendetta, o almeno a credere di averla scelta.