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 2020  maggio 11 Lunedì calendario

La burocrazia nuoce ai decreti

Dunque il governo di Giuseppe Conte ha deciso di lanciare la sfida alle più monumentali opere dell’ingegno letterario. Dopo aver surclassato I promessi sposi di Alessandro Manzoni, 592 pagine, il decreto ex “aprile” aveva a un certo punto superato le 762 pagine della Valle dell’Eden, capolavoro di John Steinbeck. Con la differenza che la bozza ciclopica, che da 767 cartelle è poi planata a quota 400, è tutt’altro che una pietra miliare della letteratura. Verosimilmente, un nuovo sterminato contorsionismo della nostra burocrazia. Ulteriore dimostrazione che mentre il Paese va da una parte, la politica e la pubblica amministrazione seguono la direzione esattamente opposta. Se questa è la semplificazione di cui aveva parlato il presidente del Consiglio dopo le prime fondatissime critiche ai decreti Cura Italia e Liquidità, stiamo freschi.
A nulla è servito il confronto con gli altri Paesi. Né gli scivoloni, i ritardi, le disfunzioni e gli effetti catastrofici di certe assurdità che andavano corrette subito, come i cinque passaggi necessari per sperare di ottenere la cassa integrazione in deroga. Ma ancor meno sono servite le osservazioni e le proteste arrivate da tutte le parti.
Le imprese lamentano che per accedere alla misura fondamentale prevista dalle manovre anti coronavirus, la garanzia dello Stato sui prestiti bancari, bisogna produrre una impressionante mole di carte, fino a 19 diversi documenti. Che per giunta sono spesso, sottolinea un’analisi di fonte confindustriale, pieni di informazioni inutili. E la burocrazia delle banche? Per concedere finanziamenti coperti da garanzia pubblica pretendono a loro volta una documentazione imponente: dai flussi di cassa alle previsioni economiche, per arrivare perfino ai piani strategici di ripresa. Tutta roba necessaria per tutelarsi, argomentano, dato che la garanzia dello Stato non copre per alcune categorie di imprese l’intero prestito, ma il 90 per cento. Già, perché non il cento per cento?
Ma tutto il decreto Liquidità è stato disseminato di norme e prescrizioni piuttosto singolari. In ambienti della Confindustria si punta per esempio il dito verso l’obbligo di accordi sindacali sull’occupazione come condizione per ottenere la garanzia pubblica sui prestiti che attraverso la Sace viene estesa anche alle imprese di maggiori dimensioni. Un vincolo, dicono, capace di limitare l’accesso di molte aziende a quella misura prevista dal decreto.
Per non parlare di certi inspiegabili ritardi. L’operatività del fondo pubblico di garanzia dei prestiti bancari alle imprese, presentato in diretta televisiva a reti unificate come il bazooka italiano, è entrato a pieno regime ben 20 giorni dopo la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, e a due mesi dalla deflagrazione dell’emergenza. Come la moratoria sulle revoche degli affidamenti bancari per le imprese minori: avviata solo due settimane dopo l’entrata in vigore, e con ogni banca che l’ha applicata a modo suo.
Per tutta risposta, dopo 160 provvedimenti governativi e gli oltre 300 delle Regioni in cento giorni, dopo le 116 pagine del decreto Cura Italia e i 129 mila caratteri del decreto Liquidità, dopo certe follie frutto semplicemente di ottusità burocratiche (come la liberazione di centinaia di condannati per reati di mafia), arriva un nuovo macigno. Nel quale, tanto per rispettare il copione, appare anche qualche pillola maleodorante: tipo una nuova edizione del condono edilizio.
Eppure se volessero davvero semplificare, una cosa potrebbero farla. Si chiama “interoperabilità” delle banche dati. La nostra pubblica amministrazione ne trabocca ormai letteralmente. Ogni apparato ha la sua, che però non dialoga con le altre. Risultato, anziché facilitare la vita ai cittadini e all’economia, complicano paradossalmente le cose. E ciò che sta accadendo con i decreti per arginare l’emergenza ne è la prova lampante. Per concedere un beneficio a un’impresa bisogna controllare che non ci sia di mezzo la mafia, e questa è materia della Giustizia ma anche del Viminale. Poi che sia in regola con le tasse, ed ecco l’Agenzia delle Entrate. Quindi che abbia pagato i contributi previdenziali, e tocca all’Inps. Occorre pure verificare che risultino in ordine i bilanci, depositati alle Camere di commercio. Nonché la situazione debitoria, che ovviamente conoscono le banche. Ma c’entra anche il ministero dello Sviluppo, il quale ha competenza sugli aiuti di Stato. E soltanto per citare i passaggi principali. Il bello è che tutti i documenti sono disponibili nelle banche dati pubbliche. Senza che l’interessato sia costretto in teoria a produrli. Se esistesse la possibilità di far dialogare tutte queste banche dati, le procedure durerebbero lo spazio di qualche minuto: giusto il tempo perché si accenda la luce verde sul computer dell’ufficio cui si presenta la richiesta e dove confluirebbero in tempo reale tutte le informazioni. Troppo facile.
Che sia la soluzione lo sappiamo da anni. Se una gara d’appalto fosse gestita con questo sistema, anziché con il meccanismo arcaico dei documenti che vanno prodotti per essere verificati e riverificati, non durerebbe mesi ma giorni. Con ovvi risparmi di tempi e costi. Verrebbero meno anche discrezionalità pericolose, e molti ricorsi. Perché allora non ci si è ancora arrivati? Domanda forse inutile. Per le gelosie e le resistenze delle amministrazioni, certo. Ma dietro a gelosie e colpevoli inerzie ci sono anche precisi interessi economici.
Secondo la Corte dei conti gli apparati pubblici spendono ogni anno 5,8 miliardi di euro per l’informatica, ma con “un utilizzo inefficiente delle risorse”, come riporta uno studio recentissimo di Alessandro Banfi e Giampaolo Galli per l’Osservatorio sui conti pubblici diretto da Carlo Cottarelli. E c’è da crederci, se è vero che una gara può durare da un minimo di 11 a un massimo di 24 mesi: tempi che non sono compatibili con il ritmo di sviluppo delle tecnologie.
Tutti i piani che consentirebberro di evitare molte follie burocratiche sono rimasti sempre allo stadio di chiacchiere e proclami sulla “digitalizzazione”. Per quelle chiacchiere c’è perfino un ministero. E non per nulla gli indicatori Desi della Commissione europea che misurano il livello di trasformazione digitale della società continuano a collocare la burocrazia italiana soltanto al posto numero 18 fra le pubbliche amministrazioni europee. Appena sopra gli ex Paesi dell’Est. Una posizione avvilente. In compenso il suddetto ministero, detto dell’Innovazione tecnologica e della Digitalizzazione, ci ha appena regalato l’ennesimo comitato: una “ task force multidisciplinare” di 76 persone “per l’utilizzo dei dati contro l’emergenza Covid 19”. Avanti così.