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 2020  maggio 11 Lunedì calendario

Ritratto di Jovanotti

Non fu affatto facile convincere Jovanotti a partecipare alla Festa del Cinema: è una persona generosa, Lorenzo, ma anche estremamente impegnata, e ama prepararsi con grande cura. Il corteggiamento è durato più di un anno, ma all’improvviso mi ha detto «vengo», e ho capito che sarebbe stato uno spettacolo memorabile. Il giorno dell’evento il pubblico si assiepò sin dalla mattina lungo il red carpet dell’Auditorium, e lo accolse con un’ovazione interminabile, ritmando il suo nome, come per un concerto. Lorenzo rispose tuffandosi tra la gente con tutto il suo entusiasmo: accettò un’infinità di selfie, firmò tutti gli autografi richiesti, scherzò con i fan e accennò persino a dei passi di danza prima di farsi immortalare mentre si arrampicava su una transenna alzando le braccia al cielo in segno di gioia. 
Fu un bagno di folla impressionante, che mi chiarì il motivo più intimo del suo straordinario successo: per Lorenzo incontrare il pubblico non è un lavoro, ma un gioco. Non c’è niente di impositivo o presuntuoso nel suo modo di proporsi, e riesce a essere travolgente per una miscela perfetta di due elementi: non teme i sentimenti e ha il dono innato della leggerezza. Quella sera c’era una tale quantità di gente nell’Auditorium, che riuscimmo a fatica a entrare nella green room, dove mi disse all’improvviso: «Ho portato la mia lista di film, ma sono 50, non cinque». Rimasi di sale e tentai di ricordargli che si trattava della Festa del Cinema, che subito dopo era previsto un film importante accompagnato dal cast, e avevamo a disposizione 60 minuti: nel suo caso potevo arrivare a 90. Deve aver visto la disperazione nel mio sguardo perché accettò di negoziare, tagliando a 15 il numero dei film, con l’impegno di elencare gli altri 35. Racconto questo dettaglio perché è un altro elemento della sua strabordante generosità, come della capacità di adattarsi con assoluto professionismo. 
Entrammo in scena senza una scaletta precisa e Lorenzo fu irresistibile: dopo aver elencato i 35 titoli, chiedendo scusa a Stanley Kubrick per non averlo incluso nei primi 15, cominciò a commentare le sequenze della sua vita, che rivelarono diverse sfaccettature del suo animo. Spiegò nel dettaglio una scena di Pulp Fiction dichiarando di adorare Tarantino proprio per gli elementi che spiazzano alcuni critici: «non è geniale, prima che liberatorio, che in Bastardi senza gloria Hitler sia ucciso in un attentato?» Poi celebrò The Blues Brothers, «mitico», e Adriano Celentano in Yuppi Du, raccontando della prima volta che vide il film. Si dilungò quindi a parlare della scena di Amarcord in cui lo zio matto del protagonista sale su un albero e urla «Voglio una donna!!!». Rivide la scena divertendosi come se fosse la prima volta e chiosò: «Fellini è il più grande e Amarcord è un capolavoro assoluto». 
Si eccitò a rivedere una scena della Febbre del sabato sera, ma nulla lo emozionò, ed emozionò il pubblico, come una sequenza di Un sogno lungo un giorno, in cui la luce illumina improvvisamente un personaggio. Disse a tutti «guardate cosa combina questo genio di Coppola» e alzò di nuovo le braccia al cielo: «è piena di luce perché ama». Continuò così con tutti gli altri film, tradendo un momento di commozione per Stand By Me, «non riesco a contare quante volte l’ho visto». Riuscimmo a contenere l’evento nei 90 minuti, ma era tale l’energia e il suo entusiasmo che sarebbe potuto durare tre ore. Uscendo dal teatro evitai gli sguardi del cast del film che aveva aspettato mezz’ora nella green room, e fu lui a sciogliere il ghiaccio salutandoli con grande calore. 
Una delle tante cose belle di Lorenzo è che di persona non è molto diverso da come appare in scena: spiritoso, autoironico, trascinante e romantico. Quello che colpisce, però, in un colloquio intimo, è una curiosità autentica ed eclettica, che lo porta sempre a documentarsi in maniera onnivora. Lo stesso vale nei riguardi delle persone: vuole capire, scoprire per poi fidarsi e confrontarsi. Non sorprende che mescoli perennemente cultura alta e popolare, ma è affascinante come riesca a cogliere la verità di ogni espressione artistica a prescindere da come venga p considerata: con lui capita di parlare nella stessa serata, e con la stessa passione, di Don DeLillo e dei personaggi Marvel, di Lucien Freud e Andrea Pazienza. Ci vediamo quasi solo a New York, dove ha vissuto per qualche anno e ha un appartamento: non c’è volta che non finiamo a parlare della storia della città, per lui molto più interessante, delle mode del momento. Ricordo lo sconcerto quando gli dissi che stava per chiudere il Four Season, lo splendido ristorante disegnato da Philip Johnson all’interno del Seagram Building di Mies Van Der Rohe: prenotammo subito un tavolo, e per tutta la cena si informò su cosa avesse reso il locale leggendario, a prescindere dalla folgorante bellezza. 
La sua curiosità intellettuale lo porta ad avere un atteggiamento anti-dogmatico: fece scalpore una canzone in cui affrontò problematicamente la questione dell’aborto, e il rifiuto naturale di ogni tipo di ideologia va di pari passo con la sua contagiosa allegria. Eppure il dolore lo ha toccato da vicino: lo strazio della morte del fratello Umberto, che ha tentato di esorcizzare con Fango, una delle canzoni più belle, il cui refrain è «io lo so che non sono solo anche quando sono solo». Un elemento molto più importante di quanto possa apparire è il rapporto con la religione: sinceramente non so se sia credente, né osservante, ma senti immediatamente che il cattolicesimo è parte del suo codice genetico: «Mio padre era un dipendente del Vaticano», spiega, e aggiunge «il mio cognome è Cherubini, quello di mia madre Cardinali». Tra le cose di cui è più curioso è il modo in cui viene governata la chiesa, e ricorda con un senso di rispetto e mistero che «il cristiano è nel mondo e non del mondo». Ci trovammo per caso insieme nei giorni dell’ascesa al soglio di Pietro di Papa Francesco: «Per un credente è determinante l’opera dello Spirito Santo», osservò, prima di discutere su come sarebbe cambiata la storia se fosse stato eletto il Cardinal Angelo Scola, di cui aveva letto degli interventi pubblici. Non l’ho mai sentito parlare male dei colleghi musicisti, e questo è certo una rarità, ed è una miniera di aneddoti su amici che non ci sono più quali Lucio Dalla, Pino Daniele e anche Luciano Pavarotti. È il primo a scherzare, ma non rinnegare, i suoi inizi da disc jockey, quando venne lanciato da Claudio Cecchetto all’inizio molto scettico sul nome d’arte Jovanotti. «Pensa che la prima scelta era Joe Vanotti, a cui fece seguito Gino Latino», scherza adesso, ma ama soprattutto proiettarsi nel futuro: è un amante delle nuove tecnologie, e non ha nulla, a cominciare dal fisico, che suggerisca i 53 anni. È un pacifista convinto, impegnato in prima persona nella difesa dell’ambiente e la lotta alla vivisezione, ma una volta l’ho sentito dichiarare «sarei molto onorato se mi ricordassero con le parole che Pasolini dedica a Fellini: «Egli danza». Nei pochi momenti di pausa organizza gite in solitaria in bicicletta in luoghi estremi come la Nuova Zelanda, ma se gli chiedi cosa sia la felicità ti risponde una serata con la moglie Francesca e la figlia Teresa. Ma anche allora pensa a come migliorare il mondo, almeno con il dono di una risata. Lui direbbe «penso positivo perché son vivo».