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 2020  maggio 11 Lunedì calendario

Intervista al direttore d’orchestra Daniel Oren

«Eravamo pronti, le prove di questa nuova Bohème erano iniziate, magnifico il clima di lavoro. Poi, da un giorno all’altro, la chiusura, la sospensione. Uno shock, per noi come per tutti». Daniel Oren, direttore d’orchestra, israeliano, 65 anni, dopo due mesi di quarantena trascorsi nella propria casa di Tolone assieme alla famiglia, si sente «morto spiritualmente. Per gli artisti che lavorano per un pubblico, la chiusura dei palcoscenici, l’impossibilità a fare il nostro lavoro, significa semplicemente non avere più ossigeno. E senza ossigeno non vivi». 
Al di là del tunnel, una speranza: la nuova Bohème programmata dal Teatro Regio per marzo, con i disegni originali di Adolfo Hohenstein creati per la prima torinese del 1896, andrà in scena a dicembre. Sarà lui a dirigerla, come era lui sul podio del Regio nel 1996, per l’edizione del centenario del capolavoro di Puccini, con Mirella Freni e Pavarotti. «Luciano viveva un periodo di difficoltà, era fragile. La sera ci invitava sempre nel suo appartamento, aveva bisogno di calore umano. Non si sentiva sicuro, poi quando sono arrivati i microfoni della Rai, e si è riascoltato, ha preso coraggio, è tornato ad essere lui».
Rivedendo i filmati, ci sono momenti musicalmente superlativi. Il pubblico applaude, urla, piange. Che ricordo ne ha?
«Per anni non ho osato riascoltarla. L’ho fatto pochissimo tempo fa: lui e Mirella avevano un’intesa musicale meravigliosa, incantata. Lei è stata, è, resterà sempre la Mimì. Insuperabile. A dicembre avremo una compagnia di giovani, e sarà una magnifica sfida».
Teatri chiusi, impegni cancellati, sale vuote. Era possibile una reazione diversa alla pandemia?
«La linea dura è giusta. Non si potevano rischiare altre vittime. Ora c’è da affrontare l’emergenza economica: anche nel nostro mondo molti sono in grave difficoltà e tendono alla depressione: se non permetti a un artista di esercitare il suo mestiere, lo ammazzi».
Che cosa l’ha aiutata ?
«La famiglia, stare con i miei figli: prima, era difficile trovare il tempo. E un pensiero della cultura ebraica: ogni 7 anni l’uomo deve riposare. Anche la terra deve riposare. E i debiti devono essere condonati».
Per la riapertura dei teatri ci vorrà ancora tempo. Intanto?
«Intanto bisogna dare segnali forti. Cecilia Gasdia, a Verona, si è battuta come una leonessa per organizzare comunque dei concerti all’Arena in agosto. La decisione dei Berliner Philharmoniker di suonare dal vivo il 1 maggio nella loro sala è stata un gesto splendido, di coraggio e speranza. Non fa niente se non c’era pubblico, se nei prossimi mesi vedremo sale con 50 o 100 spettatori soltanto. Dobbiamo mostrare che siamo vivi!».
Tutte le istituzioni di spettacolo si sono tuffate nel web: una scelta forse inevitabile. Giusta?
«Attenzione a non esagerare con lo streaming. Fa piacere sentire registrazioni, ma è pericolosissimo, ti abitua a fare a meno della partecipazione condivisa alla creazione di un’opera, che rimane un’esperienza unica. Lo streaming non è la soluzione, non può esistere un Netflix per la musica. Fa una bella differenza guardare un quadro di Raffaello o una scultura di Michelangelo in un web-tour o dal vivo».
Il pubblico ritroverà la voglia di uscire, di partecipare?
«Sì, perché avrà bisogno di nutrire lo spirito, di ritrovare la propria umanità».
La crisi: spettacolo e cultura rischiano di arrivare ultimi, dopo tante altre emergenze?
«Il presidente americano Roosevelt, durante il New Deal, investì somme enormi nella cultura. Che cosa hanno fatto città come Berlino e Milano 75 anni fa, subito dopo la fine della guerra? Hanno riaperto i teatri, ricostruendoli o creandone di nuovi. Nel 1946, il San Carlo di Napoli andò in tournée a Londra: gli inglesi avevano il teatro, ma non c’era ancora l’orchestra e non potevano rimanere senza musica. Dal buco nero, dal marasma di questi mesi, dovrà nascere qualcosa che ci salva. L’arte sarà salvatrice e la politica dovrà avere una visione a lungo termine».
L’arte. Che cos’è?
«Hannah Arendt diceva: "L’arte è un dono". Io aggiungo: un dono di Dio».