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 2020  maggio 11 Lunedì calendario

Primo Levi e il palindromo scomparso

Primo Levi aveva una grande passione per l’enigmistica: compose sciarade, rebus, logogrifi, anagrammi, palindromi. Chiese e ottenne dalla Sip che il numero telefonico della sua seconda casa fosse anagramma del numero della prima. Duellò alla pari con Giampaolo Dossena, uno dei massimi esperti di giochi linguistici. Nel 1978, sul numero di Ferragosto di Tuttolibri, pubblicò Calore vorticoso, un racconto che tre anni dopo raccoglierà in Lilìt. Il protagonista è Ettore: ha un nome omerico, in realtà è un funzionario che nelle riunioni s’annoia. Sognando di raggiungere a Sperlonga per il weekend la sua bella Elena, scarabocchia su un foglietto una frase reversibile: «Elena, Anele». Poi una seconda: «Essa è leggera, ma regge le asse». Sembra che il tempo faccia marcia indietro: «È lo senno delle novità, genere negativo nelle donne sole». I palindromi sono versi dell’assurdo, che si leggono da sinistra a destra, da destra a sinistra. Si allontana dal tavolo di lavoro: tornando a casa, tampona una macchina in retromarcia, gli sembra che le lancette dell’orologio ruotino al contrario. Si guarda allo specchio: la barba è lunga, non si era sbarbato la sera prima? Impreca contro la sua città: «A Roma fottuta tutto fa mora».
Nella cerchia di amici i parodisti, i poeti giocosi, le burle non mancavano. Si ricordi Guido Bonfiglioli, protagonista di un racconto, Il lungo duello, co-autore con Emanuele Artom di un libretto di parodie ispirate alla figura di Elena. Il ritratto di Ettore ha una vaga somiglianza con uno degli amici più cari di Levi, Eugenio (Euge) Gentili-Tedeschi. Architetto, partigiano, uomo di cultura: un torinese trasferitosi a Milano, protagonista dell’architettura moderna. Copia di quegli schizzi, di quelle poesiole liceali, parzialmente raccolti in un libro (I giochi della paura, 1999), si conservano oggi nella casa dell’amico, dove Levi si recava spesso in visita. Come Ettore del racconto, Euge teneva sempre a portata di mano penne, pennarelli colorati e carta (buste, cartoncini, qualsiasi cosa) su cui scarabocchiare quel che gli passava per la mente. Di pugno di Levi, in uno di questi cartoncini conservati fra le carte di Gentili-Tedeschi, disposti in forma di poesiola, troviamo cinque palindromi. Il cartoncino reca il timbro a secco della Banca Commerciale, è piegato in due e all’interno porta una riproduzione di un quadro con gli auguri per le feste, aggiunti a macchina e firmati (Virgilio Galassi) e la data: 8.12.78. Facile immaginare che cosa sia successo: chiacchierando dopopranzo sarà riemersa la comune passione per «i giochi della paura». Levi avrà chiesto qualcosa su cui scrivere. 
Quattro su cinque palindromi sono gli stessi che troviamo nel racconto per Tuttolibri, uno, quello che fa più ridere, è inedito e tale resterà quando Levi raccoglierà il racconto in volume: «Erede, sodo sedere». Sintatticamente richiedeva di caratterizzare un personaggio con due qualità (l’essere erede e la dote anatomica), una delle quali un po’ audace. Forse un po’ troppo, magari Levi avrà pensato se fare della fidanzata di Ettore un’ereditiera callipigia, oltre che vagheggiare i suoi «O morbidi nei pieni di bromo». Leggendo i libri di Levi scontri fra il sacro e il profano non meravigliano. Guai se le frasi reversibili fossero vere. Sarebbero «sentenze di oracolo», come quella dei santi e dei martiri: «Eppure... eppure, quando le leggi a rovescio, e il conto torna, c’è qualcosa in loro, qualcosa di magico, di rivelatorio: lo sapevano anche i latini, e le scrivevano sulle meridiane, Sator Arepo tenet opera rotas...». 
Il palindromo farà la sua ultima apparizione in una scena cruciale del romanzo Se non ora, quando? «Lo vedi, si legge da destra a sinistra e da sinistra a destra: vuol dire che tutti possono dare e tutti possono restituire». Un giorno, con un pezzo di carbone, un personaggio del libro, militante nel Bund, il partito socialista ebraico, scrive nell’intonaco bianco cinque grosse lettere: VNTNV. Un palindromo perfetto: «V’natnu», «Ed essi restituiranno». Una parola che si trova nella Bibbia (Es 30,12), da cui ha origine una riflessione destinata a molta fortuna nell’ebraismo secolarizzato di fine Ottocento, quando giustizia sociale e filantropia attraevano più dell’enigmistica. Si riceve quanto si è dato. Il primo a elaborare quel pensiero, nel XIII secolo, è Ja’qov ben Ašer, poi ripreso dal grande saggio, il Gaon di Vilna. I giochi di parole non sono mai semplici trastulli, gli estremi che si rincorrono caratterizzano la morale di Levi. «Le due classi, dei pessimisti e degli ottimisti, non sono peraltro così ben distinte: non già perché gli agnostici siano molti, ma perché i più, senza memoria né coerenza, oscillano fra le due posizioni-limite, a seconda dell’interlocutore e del momento».