Corriere della Sera, 10 maggio 2020
Pietro Ichino da l’addio alla moglie Costanza
«Mi ero impegnato a essere per Costanza le gambe che aveva perduto, gli occhi al posto dei suoi che non funzionavano più, e nell’ultimo periodo anche le braccia e le mani per lavarsi, pettinarsi, vestirsi, portare il cibo alla bocca; questo ben presto ha creato tra me e lei, dopo 45 anni di matrimonio, un’intimità che non avevamo mai vissuto». E gli ultimi due anni insieme, il periodo più sofferto, «forse sono stati il periodo più ricco e intenso». Il professor Pietro Ichino, giuslavorista finito sotto scorta, apprezzato e temuto dagli studenti, ha sempre offerto di sé un profilo accademico e molto istituzionale. Ma nella notte dell’addio all’adorata moglie Costanza, dopo una lunga e terribile malattia che l’ha progressivamente paralizzata, Ichino ha raccontato sul suo blog (pietroichino.it) questi anni di sofferenza con parole commoventi.
La moglie di Ichino era affetta da otto anni da paralisi sopranucleare progressiva (Psp), detta anche sindrome di Richardson, che le ha lentamente azzerato tutte le facoltà vitali. Una malattia terribile e inarrestabile, simile alla Sla, che l’ha costretta prima in sedia a rotelle e poi a letto: «In questi due ultimi anni nei quali la mia vita è stata legata a quella di Costanza ancor più di quanto non fosse stata nei precedenti, per tutte le svariate necessità dell’assistenza diurna e soprattutto notturna – racconta il professore dopo l’ultima notte passata al fianco della moglie —, in molti mi hanno chiesto come facessi a sopportare questo grande sacrificio. All’inizio confesso che anch’io ne fui spaventato. Mi parve un caso in cui non si poteva applicare la grande regola secondo cui a cercare il bene nascosto in ogni situazione difficile, lo si trova sempre. Provai a impegnarmi in questa prova con uno spirito sportivo: “vediamo quanto tempo resisto”».
Ma è proprio in questa sofferenza che il professor Ichino racconta di aver trovato la forza di andare avanti: «Ogni volta – e potevano essere decine in una giornata – che lei mi chiedeva di spostarsi dal letto o dalla poltrona alla carrozzella e viceversa era un abbraccio stretto, e qualche volta ci fermavamo a metà strada abbracciati così, indugiando a dondolarci come in un ballo cheek to cheek. Abbiamo scoperto la delizia nuova, mai sperimentata prima, del leggere insieme ad alta voce per lunghe ore serali libri stupendi, che letti insieme diventano ancora più belli. Ma l’intimità maggiore era quella delle sveglie notturne per una delle tante necessità, anche solo per aiutarla a cambiare posizione nel letto: accadeva che non ci riaddormentassimo subito, ma restassimo a lungo abbracciati nel letto parlando sottovoce di tutto quello che più ci stava a cuore, dai problemi di figlie e nipoti a quello che sarebbe stato di noi nelle prossime settimane e mesi».
La notte, un fattore per cui Ichino fa un distinguo fondamentale rispetto al giorno. «Perché di giorno non si riesce a parlare della morte – scrive ancora Ichino – nel buio della notte riuscivamo a parlare serenamente del tempo che ci era lasciato da vivere insieme e di quello che sarebbe seguito, nel quale lei non sarebbe stata più qui, ma che lei provava a immaginare con me, così in qualche modo lasciando in esso un segno della sua presenza».