Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2020
Curiosità, segreti e ricette per preparare l’inchiostro
Dicono che il nero stia bene su tutto. Sicuro. Ma quando viene “indossato” con i dovuti modi, l’eleganza, la naturalezza, il carattere e la grande capacità di essere capito da chiunque, anche al solo, anzi, proprio al primo colpo d’occhio – e cioè il nero dell’inchiostro (tipografico) adeguato su una pagina, di libro, bianca – ecco che le “perfezioni del nero”, di cui già parlava Giuseppe Ungaretti, diventano non più, forse, un suo fantasma mnemonico, personale e poetico (come ha dimostrato da par suo Carlo Ossola), ma un qualcosa di materiale, visibile, concreto. E vero, reale. Lo sapeva già, del resto, Leonardo da Vinci. Il quale racconta, in una delle sue Facezie (1493: la stampa gutemberghiana era giovanissima e già perfetta, e si faceva sentire), come l’inchiostro fosse un giorno «disprezzato per la sua nerezza dalla bianchezza della carta, la quale da quello si vide imbrattare». Ma l’inchiostro, continua il genio di Vinci, non solo non si perse d’animo. Anzi: di pronta risposta, «mostra a essa che per le parole, ch’esso sopra lei compone, essere cagione della conservazione di quella». L’accoppiata è dunque vincente, ma la storia di come lasciare una traccia di scrittura durevole su un supporto è lunga, piena di tentativi, pentimenti, progressi, alchimie (e astruserie varie) e fascinazioni.
E non solo parliamo degli inchiostri tipografici, che meritano comunque un capitolo a parte (e qui basti solo la citazione, e rimando, a un libro esaustivo sul tema, l’insostituibile Gli inchiostri nella storia della scrittura e della stampa di Alessandro Gusmano, Editrice Bibliografica, 2011): ci sono quelli da scrittura (penne stilografiche e a sfera), quelli litografici e, ovviamente, quelli, intriganti già dal nome, “simpatici”. In un libro fondamentale per tracciare quella «Teoria esistenziale dei liquidi», della quale il sommo biblionnivoro Massimo Gatta lamenta la mancanza, Mark Miodownik (Liquidi è appunto il titolo del libro, edito da Bollati Boringhieri nel 2016 e tratta, in maniera divertente e precisa, di tutto ciò che “scorre” nella nostra vita), dedica un gustoso capitolo – «Indelebile», che è poi l’aggettivo più ambìto e più ricorrente quando lo si nomina – all’inchiostro. Si concentra, è vero, più su quello da scrittura, ma perché è proprio quello il primo di cui abbiamo, in generale, esperienza più pratica e percezione fisica: dalla bellezza del gesto di lasciare traccia su un foglio (e lo stupore di vedere che la mano realizza ciò che il cervello detta) al fastidio di vederlo diffuso, a chi non è capitato?, a macchia, ehm, sulla dita, se non peggio, di tutti noi scriventi. Non a caso, la lotta per ottenere inchiostri decenti, spiega Miodownik, è sempre stata faticosa. «L’inchiostro è un liquido con un duplice scopo: fluire aderendo alla pagina e solidificarsi». Il primo compito non pone troppe difficoltà: «fluire è la caratteristica essenziale dei liquidi». E anche il secondo, la solidificazione, è normale. «Ma far sì che le due azioni avvengano nella giusta sequenza, in maniera affidabile e in un brevissimo lasso di tempo, dimodoché l’inchiostro non sbavi diventando illeggibile, è molto più complicato di quanto non sembri». La storia infatti è lunga e avventurosa, e parte dalla combinazione di fuliggine delle lampade a olio con gomma d’acacia (gomma arabica), che funge da legante, secondo le antiche ricette egizie. In uso per secoli, in mancanza di meglio: eppure acquoso e sbavante. Servivano soluzioni alternative. Quella apparsa più efficace fu l’inchiostro ferrogallico, quello che i cristiani usarono per trascrivere la Bibbia, i musulmani per il Corano, Shakespeare per scrivere le sue opere, i legislatori per gli atti parlamentari: un successo chimico e artigianale che arrivò fino al secolo XX. Ecco la ricetta. Ancora Miodwnik: «L’inchiostro ferrogallico si ottiene immergendo un chiodo di ferro in un po’ di aceto; l’aceto corrode il ferro e lascia una soluzione color ruggine piena di atomi di ferro carichi. È a questo punto che entrano in scena le galle. Le galle sono escrescenze che occasionalmente si formano nelle querce. Si creano quando le vespe depositano le loro uova nelle gemme dell’albero. Le vespe manipolano l’apparato molecolare della gemma della quercia in maniera tale che, via via che la gemma cresce, forniscono cibo alle larve iniettate. Per gli alberi è un male, per la scienza, invece, è un bene, perché le gemme finiscono per produrre le galle della quercia, che, con la loro alta concentrazione di tannini, hanno segnato una svolta rivoluzionaria nell’ambito degli inchiostri».
La “noce di galla” è uno degli ingredienti più ricorrenti, dunque, dei vari prontuari per produrre inchiostri, uno dei quali è riportato in un recente, delizioso, volumetto dal titolo Inchiostri. Stampa, litografia, scrittura, simpatici (Biblohaus, pagg. 120, € 15,00) a cura, giustappunto, di Massimo Gatta che riserva per sé una dotta disquisizione finale su libri e citazioni letterarie (da Bufalino, Inchiostro del diavolo, in edizione Sciardelli, ovviamente, a Roberto Roversi). Gatta è andato a ripescare due documenti che forniscono l’occasione della pubblicazione, ma non la esauriscono. Un saggetto, in anastatica (quindi medesimo titolo del libro Biblohaus), che fu edito, senza autore, nel 1892, dallo stampatore-editore «dagli eredi del Barbagrigia» (che fantastico nome, e in copertina!) che «rimanda – spiega Gatta – a quel Barbagrigia pseudonimo dello stampatore Antonio Blado d’Asola, con bottega a Roma accanto a Palazzo Farnese», ahpperò. Il secondo è un manoscritto che riporta delle ricette per fabbricare inchiostri, ma a margine di un volume stampato a Venezia nel 1666, che pubblica una scelta di facezie, motti e burle, dal Piovano Arlotto al Barlacchia.
Il libriccino Inchiostri è un pirotecnico susseguirsi di meticolose ricette. Non potendo io preparare inchiostri da stampa tipografica, mi sono fiondato su quelle degli inchiostri simpatici, per scritture invisibili. «Scrivete sulla carta con una soluzione di nitrito di bismuto...»: vabbé va, proviamo la prossima. «Scrivete con una soluzione limpida e trasparente di solfato di ferro, inumidite poscia con infusione di noci di galla...»: come non detto. Vado alla successiva, una cosa strabiliante, da 007: «Inchiostro per far comparire una scrittura invisibile, ponendo entro un libro la carta su cui è stata tracciata». Iniziamo bene: non mi è chiaro nemmeno il titolo. Dunque: «Scrivete sulla carta con sotto acetato di piombo e ponete questa carta in un libro, poscia mettete venti o cinquanta pagine più lontano, un’altro (sic!) foglietto di carta inzuppato in una soluzione di solfidrato di potassa o soda...»: a questo punto, essendo, per carità, solo temporaneamente sprovvisto del solfidrato di potassa, che invece normalmente tengo sempre a portata di mano, ho abbandonato le velleità da agente segreto e sono tornato ai solidi scaffali della libreria. Qui ho ripescato un commovente e sapiente Manuale di Enrico Tallone (che, a sua volta, firma la prefazione al libro di Gatta), il IV, dedicato agli inchiostri: e in una doppia pagina di f minuscole in corpo gigantesco ho ritrovato le ben 26 tonalità di inchiostri neri prodotti in Germania, Italia, Inghilterra e Stati Uniti dagli anni 30 a oggi. Osservandola con luce radente, ne apprezzi la densità, la collosità,la resilienza, per usare una parola oggi di moda. E capisci quanto i maestri tipografi si siano «fatti il mazzo» (è un’espressione che viene proprio dalla tipografia, e dalla preparazione degli inchiostri), sperimentando e provando, riconoscendo, già da Magonza, l’utilità superiore dell’olio di lino. «Nel regno degli adepti e degli artieri della stampa i nomi dei più titolati fabbricanti d’inchiostro vengono pronunciati con la stessa enfasi con la quale un epicureo annuncia agli amici il giungere sulla tavola di un Barolo, di un Bordeaux, di un Brunello»: parole dello stesso Tallone, maestro dell’arte nera come pochi altri, custode geloso di barattoli d’epoca, millesimati, frutto della passione di artigiani e industriali che «hanno saputo mantenere il tono uguale dalla prima all’ultima pagina, dando sostanza ai pensieri per mezzo del “divino liquore”. No, la perfezione del nero non è un modo di dire: è una magnifica profezia da poeti che oggi si estende a noi lettori, devoti del libro e della sua magia. Nera, ovviamente. Epperò: quanto benefica!