Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  maggio 10 Domenica calendario

Storia d’Italia in pantaloncini

Prima di tutto difendere le finanze, poi si va all’attacco. Così l’Italia del calcio, che esordisce il 15 maggio 1910 sulla scena internazionale, sceglie le maglie bianche perché costano 7 centesimi meno di quelle colorate. Per l’azzurro c’è tempo ma quell’Italia-Francia è l’inizio della storia : 110 anni sempre all’attacco.
L’anno prima, nel 1909, l’Arena civica di Milano aveva ospitato l’arrivo del primo Giro d’Italia ed era la cornice perfetta per il debutto. Quattromila tifosi sugli spalti – a Milano allora vivevano 700mila persone – aspettano la prima Nazionale. Umberto Meazza, commerciante di vini e liquori ma niente a che fare con Peppìn, è il trainer: in campo, otto milanesi, che giocano nell’Unione Sportiva Milanese, nel Milan, nell’Internazionale e nell’Ausonia. Poi, ci sono due atleti del Torino e il capitano, il nr. 3 Francesco Calì dell’Andrea Doria di Genova, scelto perché è il più anziano e perché, da figlio di emigranti in Svizzera, parla cinque lingue. La rincorsa al marketing delle maglie è fantascienza e, quella domenica pomeriggio, chi veste in total white, chi con braghe nere e chi con papalina: a muover tutto solo l’amore e la curiosità per il foot-ball, arrivato da una quindicina d’anni in Italia, soprattutto nel Nord del Paese. La partita, nonostante il blasone degli avversari, è una passeggiata, 6-2, con tripletta di Pietro Lana, primo goleador della storia. Scrive il cronista del «Corriere della Sera»: «una netta vittoria, e meritata, che avrebbe potuto anche essere maggiore. La squadra italiana (...) velocissima sulla palla, instancabile, i suoi continui passaggi snervarono gli avversari e li scombussolarono. Fu questa rapidità di gioco che ci fruttò la vittoria, unita al grande spirito di altruismo di cui diedero prova i forwards, che avanzavano di passaggio in passaggio. Tutti gli italiani vollero superarsi e sono tutti degni di lode». Il premio-partita, secondo le cronache, furono pacchetti di sigarette lanciati dal pubblico.
La seconda gara – sempre nel maggio del 1910 – porta l’Italia in Ungheria. Il viaggio in terza classe è più di un’avventura: in treno fino a Venezia e poi, non essendoci quel giorno il vaporetto per Fiume, arrivano a Trieste e in treno a Budapest, via Vienna. Il vitto sono decine di panini nella valigia di Attilio Trerè, giocatore dell’Ausonia Milano, ma non bastano perché quell’alba di calcio è dominata dagli squadroni danubiani: Austria, Ungheria, Cecoslovacchia e i maestri magiari mettono in riga l’Italia per 6-1. Andrà meglio quando gli ungheresi restituiranno la visita a Milano, il 6 gennaio 1911, perché l’Italia potrà finalmente schierare i giocatori della Pro Vercelli, squalificati l’anno prima. Solo 1-0 per i campioni danubiani ma soprattutto l’Italia veste d’azzurro in omaggio ai Savoia e con tanto di stemma: «la casacca è molto sgargiante – scriveva il giornalista della Lettura Sportiva – e ha il colore del cielo».
Poi, verranno la guerra, i giocatori caduti al fronte (da Luigi Ferraris a Giovanni Zini) e il regno di Vittorio Pozzo, dal 1929 al 1948. Per lui parlano i numeri: 90 partite, 61 vittorie, 16 pareggi e 13 sconfitte. Vent’anni di gloria, i due Mondiali nel 1934 (Mussolini aveva ordinato: «L’Italia fascista deve tendere al primato sulla terra, sul mare, nei cieli, nella materia e negli spiriti») e nel 1938, la vittoria ai Giochi di Berlino nel 1936. Era un uomo di ferro, Pozzo, tenente degli Alpini uscito dalla Grande Guerra, giornalista, poliglotta e psicologo ante litteram. Fedele al “metodo”, allevava i suoi ragazzi, da Schiavio a Luisito Monti, da Orsi a Peppìn Meazza, da Combi a Piola, alla fatica del vivere. Non è vero che li motivava con i canti alpini, aveva una ricetta tutta sua: «Lavorare in modo chiaro, lineare, schietto, in tono e sostanza tale da dare al giocatore la sicurezza assoluta dell’onestà e della dirittura di condotta nei suoi riguardi. Dividere col giocatore lavoro, fatica e sacrificio. Comandare con l’esempio. Non abbandonarlo mai. Essere con lui cordiale e gioviale anche, pur mantenendo, in modo che esista senza che quasi la si senta, la distanza che sempre deve intercorrere tra superiore e inferiore».
Con la tragedia di Superga, se ne vanno il Torino degli invincibili e la prospettiva di un’Italia dominatrice. Inizia, invece, un azzurro opaco: in Brasile, al Mondiale del 1950, gli azzurri arrivano spompati dal lungo viaggio in nave, con poco allenamento e tanta saudade; nel 1954, in Svizzera, subito fuori e, nonostante il ritorno degli oriundi, nel 1958, per la prima volta, l’Italia neppure si qualifica, per arrivare alla “fatal” Corea del 1966. Bisognerà aspettare il 1968 per riveder le stelle: Italia campione d’Europa e pronta a Mexico 70 con quell’Italia-Germania 4-3, la partita del secolo e della staffetta Mazzola-Rivera. E il 17 giugno saranno cinquant’anni.
Delle sciagure in terra tedesca nel 1974, la cosa migliore resta il romanzo di Giovanni Arpino Azzurro tenebra: nel Mondiale del nostro scontento, la lingua è una terracotta di invenzioni e l’esergo del libro, «Il ricordo comincia con la cicatrice», basta per dire che forse Germania 74 è la letteratura sportiva al suo meglio.
L’Italia giovane e sbarazzina di Bearzot nel Mondiale della dittatura argentina è avvicinamento al trionfo di España 82, iconico nell’urlo di Tardelli e nel presidente-tifoso Pertini accanto a re Juan Carlos. Di quel Mundial, fra silenzi stampa blindati e un Pablito in stato di grazia, va ricordata la tribuna stampa: Giovanni Arpino, Mario Soldati, Gianni Brera, Oreste Del Buono, Vladimiro Caminiti, Gianni Mura, Mario Sconcerti, Darwin Pastorin. Anche loro sono storia azzurra.
Dopo le notti magiche di Italia 90 e i rigori di Usa 94 con i quali Roby Baggio ci ha insegnato la nobiltà della sconfitta, negli ultimi vent’anni la coppa vinta a Berlino dalla truppa di Lippi, sulle macerie di Calciopoli, è il momento più alto, fino allo sfregio della mancata qualificazione a Russia 2018.
Da un biennio il ct Roberto Mancini ha riacceso l’azzurro, dopo tante tenebre. Ha superato con undici vittorie consecutive il record di Pozzo (“fermo” a nove gare vinte) ma, dopo il 9-1 contro l’Armenia, ha detto: «Il record? Vorrei i due Mondiali di Pozzo ma mi basterebbe l’Europeo...».
Ora, la pandemia ha inchiodato il calcio in panchina. La serie A balla sull’orlo dell’abisso, fra auspici di ripresa e il rischio di stop al campionato, con conseguenze buissime per il nostro pallone. Peccato per l’Europeo 2020, con un Ciro Immobile così in forma tutto poteva essere. 
L’Italia del calcio è pane e vino, è Botticelli e il Cupolone, è Fellini e la Ferrari, insieme. È la storia d’Italia e 110 anni di passione per gli azzurri ci sussurrano, per dirla con Vincenzo Cardarelli, che «Dovevamo saperlo che l’amore / brucia la vita e fa volare il tempo».