Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2020
Cosa ci insegnano gli insetti
Terrore: la lotta contro le termiti amazzoniche nel racconto di H. O. Wells del 1902. Mistero: San Remo invasa da formiche argentine nella descrizione di Italo Calvino del 1952. Di terrore e mistero si nutre Lo sciame umano di Mark Moffett, ricercatore dello Smithsonian Institution di Washington e allievo devoto di Edward Wilson, il pioniere degli studi delle basi biologiche dei comportamenti sociali (si veda la Domenica del Sole 24 Ore del 12 aprile).
L’idea di questo libro viene a Moffett quando, vicino a San Diego, si imbatte in un campo di battaglia lungo chilometri. Miliardi di formiche argentine, identiche, formano due eserciti diversi solo per l’odore dei combattenti. Sciami anonimi senza gerarchie di comando: combattono, costruiscono strade, regolano il traffico, si dedicano all’igiene, creano catene di montaggio. Fanno tutte queste cose basandosi sull’intelligenza dello sciame: ciascuna contribuisce solo con un frammento d’informazione, ad esempio segnalando con una scia chimica la posizione delle prede o dei nemici. Possono persino fare schiavi, ma questi vanno catturati da neonati, quando non hanno ancora imparato l’odore della loro società: gli adulti lotterebbero fino alla morte.
Nel regno animale, all’estremo opposto delle formiche, si collocano le scimmie. Tutte si conoscono, come se avessero un nome proprio e un cognome, quello della loro tribù. La quantità di compagni che siamo in grado di riconoscere è chiamata «il numero di Dunbar». Secondo Robin Dunbar, responsabile del gruppo sulle neuroscienze sociali ed evolutive dell’università di Oxford, si tratta del «numero delle persone a cui potremmo unirci senza imbarazzo a bere un bicchiere se le incontrassimo per caso in un bar senza essere stati invitati». Il numero si aggira su 150 per la specie umana mentre per gli scimpanzé, dal cervello più piccolo, si riduce a circa un terzo. Uno scimpanzé maschio se si imbatte in sconosciuti li attacca oppure fugge. Solo una femmina può cavarsela, a patto che sia disposta a fare sesso.
Di qui un fenomeno esclusivamente umano che colpisce Moffett, biologo delle formiche: una persona può entrare tranquillamente in un bar zeppo di sconosciuti. L’assenza di preoccupazioni e cautele in scenari del genere ci differenzia dalla maggior parte dei vertebrati uniti in società: siamo a nostro agio tra individui mai visti.
Il regno animale funziona come un’immensa biblioteca. Le formiche distinguono i libri grazie all’odore della copertina. Gli scimpanzé invece riconoscono una cinquantina di copertine e sfogliano solo questi libri. Gli uomini, infine, non solo riconoscono miriadi di copertine ma esplorano avidamente libri sconosciuti, senza alcun timore. Tutto ciò è possibile fin dalla nascita.
Giorgio Vallortigara ha pubblicato su PNAS nel 2019 un esperimento condotto su neonati con l’aiuto di collaboratori, pediatri e ostetrici (si veda la Domenica del Sole 24 Ore del 26 aprile scorco). I bambini appena nati passano la maggior parte del tempo dormendo. Quando sono svegli, le facce delle persone intorno a loro costituiscono gli stimoli visivi più frequenti. Provate a mostrare degli emoticon, cioè faccine con occhi e bocca disegnati in modo schematico. I neonati con poche ore di vita sanno distinguere i visi ben fatti da quelli in cui gli elementi sono presentati in modo disordinato. Indipendentemente da ogni esperienza pregressa, siamo in grado di reagire a schemi di facce e questa capacità cala quando impariamo a riconoscere i visi di chi ci sta attorno.
Se non disponiamo di moduli specializzati fin dalla nascita, possiamo imparare grazie ad adulti che ci istruiscono mentre cerchiamo di imitarli. Questo spiega come mai gli scimpanzé delle diverse bande differiscono nelle capacità di usare le pietre per rompere le noci, di andare a caccia di termiti con rametti modificati, di usare foglie masticate per assorbire l’acqua oppure, attività ancora più intima, di pulirsi reciprocamente con le mani e con la bocca. Anche l’abile, e a noi ignoto, inventore del boomerang doveva trovare un modo semplice per addestrare l’aborigeno medio, altrimenti la scoperta sarebbe scomparsa nel giro di una generazione. Gli uomini al contrario possono specializzarsi e lasciare in eredità alle future generazioni libri scritti nelle lingue più diverse. Secondo Moffett le miriadi di lingue dei nostri progenitori sono nate gradualmente dalla moltiplicazione dei segnali vocali necessari quando le bande furono costrette a controllare territori sempre più estesi e ricchi di incertezze.
Ecco una profonda differenza tra istruzione e educazione: la prima è funzionale all’apprendimento di capacità, la seconda serve a ordinare in categorie il mondo. E qui l’analogia con l’ingresso nel bar non tiene più perché i locali in cui entriamo nel corso della vita sono troppo numerosi e variegati. Non ci basta conoscere personalmente chi frequentiamo, relegando tutti gli altri nella categoria «sconosciuti». L’educazione trasmessa dalle varie culture ci insegna i modi per classificare gli sconosciuti: vestiti, fattezze, colori della pelle, modi di fare e di parlare, linguaggi, preferenze politiche, tifoserie, gusti, stili, e così via.
La seconda parte del saggio di Moffett è dedicata a questi criteri di identificazione che lui chiama «marcatori». Modi nuovi e innumerevoli per catalogare gli altri, ma mai veramente nuovi perché servono sempre a contrapporre «noi» agli «altri». I marcatori portano con se stereotipi divisivi da cui derivano conflitti e sofferenze per gli umani. Le culture ereditate sono imbottite di questi pre-giudizi che assorbiamo prima adattandoci alla famiglia e poi alla società.
Un’educazione veramente buona dovrebbe consistere nel renderci impermeabili a molti marcatori. Ancora meglio: bisognerebbe riuscire a non badarci anche quando altri li enfatizzano. Non dobbiamo venire educati alla tolleranza nei confronti dei «diversi», ma a cancellare le categorie divisive usate nella cultura adulta. La buona educazione non è un’educazione buona.
Molti esperimenti ricordati da Moffett mostrano che i pregiudizi sono contagiosi e finiscono per radicarsi nell’inconscio delle persone anche involontariamente. Si fissano presto, come i suoni che vanno a formare i fonemi della nostra prima lingua. Appena nati, siamo in grado di produrre una grande gamma di suoni ma poi scattano gli interruttori che bloccano solo quelli usati da chi ci circonda.
In conclusione, l’educazione buona dovrebbe essere per lo più dis-educazione, il dis-apprendimento precoce dei marcatori usati dai più in una cultura per classificare gli sconosciuti. A Moffett piace ripetere: «Gli scimpanzé devono conoscere tutti. Le formiche non devono conoscere nessuno. Agli esseri umani basta conoscere qualcuno».Questo ritornello va però completato:»Gli esseri umani che classificano le persone senza conoscerle si comportano come formiche».