Avvenire, 10 maggio 2020
In Messico non hanno mai chiuso le fabbriche yankee
Chuy è morto ieri. Insieme a Lorena, sua collega alla catena di montaggio. Lidia si è spenta due giorni fa, anche lei operaia in un impianto vicino. Lo stesso giorno di Veronica, addetta ai controlli qualità in un altro stabilimento. Ilario era diabetico e sapeva di essere a rischio. Per questo, era andato più volte in infermeria con una forte tosse e difficoltà a respirare. Ma per il medico era in perfetta salute e l’aveva rimandato ad assemblare componenti elettronici. Fino a quando, il 20 aprile è stato ricoverato d’urgenza ma ormai era troppo tardi. Sette giorni dopo è stato il turno della moglie. «A Ciudad Juárez è in atto un vero e proprio stillicidio – denuncia Susana Prieto, combattiva sindacalista della metropoli del nord del Messico –. Le vittime sono sempre le stesse: operai delle maquiladoras, con sintomi compatibili al Covid».
Le maquiladoras o maquilas sono le elefantiache fabbriche di assemblaggio straniere, in maggioranza statunitensi, disseminate lungo la frontiera tra Messico e Stati Uniti. A Juárez, che il Rio Bravo e quattro ponti internazionali dividono dalla gemella texana El Paso, sono arrivate già negli anni Sessanta. Con l’accordo di libero scambio del 1994 – il Nafta –, le maquiladorashanno invaso l’intero confine, da Tijuana fino a Matamoros. Rigorosamente dal lato messicano: là producono per rivendere, senza pagare imposte, dall’altra parte, cioè negli Usa. Il modello di business si basa sullo scarto tra ricavi, in dollari, e costi di produzione, alias salari, in pesos. «Un operaio prende l’equivalente di dieci dollari al giorno: una somma del tutto insufficiente per vivere. Per questo, fa i doppi o tripli turni», spiega Elizabeth Flores, responsabile della Pastorale operaia della diocesi di Juárez.
Le maquilas non si fermano mai: la manodopera – centinaia di migliaia di persone, in gran parte donne, considerate “più malleabili” – si alterna ogni otto ore per coprire l’intero arco della giornata. Nemmeno il Covid le ha stoppate. Eppure, in teoria, avrebbe dovuto. Il 30 marzo, il governo di Andrés Manuel López Obrador ha ordinato la sospensione di tutte le attività economiche non essenziali a causa della pandemia che nel Paese ha colpito oltre 31.500 persone e ne ha ucciso più di 3.160. L’epicentro del contagio è il cuore della nazione: la capitale e lo Stato circostante, dove si concentra gran parte della popolazione. Almeno questo affermano i dati governativi. Contestati da una recente inchiesta del New York Times, secondo la quale solo a Città del Messico le vittime sarebbero 2.500. Causa del divario sarebbe la carenza di test: solo lo 0,4 ogni mille abitanti vi ha accesso, una delle quote più basse dei Paesi Ocse, dove la media è di 23 tamponi su mille. Non sorprende, dunque, che tanti considerino poco credibili settecento casi e 132 morti ufficialmente censiti in Chihuahua, dove si trova Juárez. «Queste cifre non riflettono la realtà. Ogni giorno, ricevo segnalazioni di decessi tra gli operai delle fabbriche. A nessuno era stato fatto il tampone. Nel frattempo, le fabbriche continuano a produrre. A Juárez direi che appena un 20 per cento ha rispettato lo stop, nonostante l’associazione degli imprenditori parli di oltre il 70 per cento.
Chi ha chiuso, poi, ha decurtato arbitrariamente ai lavoratori il 50 o il 40 per cento dello stipendio. Nel resto della frontiera, che seguo costantemente, la situazione è simile – denuncia la sindacalista Prieto –. Il punto è che le aziende sono potenti e riescono ad aggirare il divieto, anche se ben poche riguardano settori essenziali. Almeno per il Messico». Di certo, per gli Usa la produzione messicana è cruciale, a giudicare dall’interesse di Washington per garantire l’attività delle imprese sul confine. Il governo di Donald Trump – l’alfiere dell’America first e del muro – ha chiesto al Messico di ampliare le eccezioni per le maquiladoras in modo da approvvigionare il mercato statunitense in sofferenza, soprattutto nel comparto dell’auto. Sulla questione si sono pronunciati vari esponenti dell’Amministrazione, dall’ambasciatore Christopher Lindau a Micheal Kozak, sottosegretario ad interim del dipartimento di Stato, a Ellen Lord, sottosegretaria del Pentagono. Il governo messicano glissa. Chiude, però, un occhio sulle attività delle maquilas. E non impedisce ai vari Stati di confine di ordinarne la piena ripresa. La Baja California l’ha fatto dal primo maggio. Sonora e Chihuahua ricominceranno lunedì. Susana Prieto non si arrende: in tuta bianca e mascherina percorre la zona industriale di Juárez esortando gli operai «a uscire dai propri sarcofagi». O almeno a chiedere misure di protezione. Qualcuno ha protestato ma la maggior parte si adegua. «Chi parla viene licenziato – dice Lia –. E non rischio. Preferisco morire che lasciare i miei figli alla fame».