la Repubblica, 10 maggio 2020
Carlovich, il mito batte sempre la leggenda
Se n’è andato il più grande calciatore mai visto. Non esiste una prova tv che ne certifichi la leggenda. Giocava nelle serie minori argentine, nessuna telecamera a bordo campo. La volta in cui avrebbe potuto essere ripreso non si presentò, dribblando il confronto. Tomas Felipe Carlovich (1946-2020) è stato ammazzato da due delinquenti che volevano rubargli la bicicletta. Aveva regalato la sua auto al figlio Bruno. Girava per le strade del suo quartiere a Rosario pedalando lento, per via di un dolore all’anca destra. Fu operato per osteoporosi nel 2005. Pagò il conto una colletta di amici, ex compagni, tifosi riconoscenti. Carlovich aveva regalato loro momenti incredibili. Giocava (ed era) libero. Fillol, il portiere campione del mondo, lo mise nella nazionale argentina di tutti i tempi. Maradona si fece fotografare con lui. Federico Buffa, inquadrato nello stadio dove si esibì, dice: «Qui il mito batte sempre la leggenda, due a zero». Il mito è fatto di gol in rovesciata, ingaggi con un bonus per ogni tunnel, della volta in cui, acquistato dall’Indipendiente Rivadavia, prese atto che gli davano molti soldi, una bella casa e una Fiat 125. Tornò per raccontarlo agli amici e non si ripresentò più. La sua pagina Wikipedia è un capolavoro dell’assenza: ci sono i nomi delle squadre, ma alla voce partite giocate e gol segnati prevalgono i punti interrogativi. L’unica certezza è una notte del 1974 in cui con la Selezione di Rosario affrontò la nazionale argentina: 3 a 0 nel primo tempo, lui migliore in campo e il ct che chiede di toglierlo. Anche lì, nessun video ma qualche sbiadita fotografia che lo ritrae sullo sfondo, baffuto e distratto.
Nell’estate del ’99, trovandomi in Argentina, lo cercai. Un giornalista della rivista Mistica mi procurò un numero di telefono. Rispose un altro Carlovich, il fratello piastrellista, all’epoca suo datore di lavoro. Urlò: «Trinche!», il soprannome, più probabile traduzione “forcone”. Lento sopraggiunse un uomo svogliato. Disse: “«Non perdere tempo con me. Metà di quello che ti han detto è inventato. Soprattutto il fatto che beva». E quella partita con l’Argentina? «Vera. Giocassimo altre cento volte le perderemmo tutte, ma giocammo solo quella lì». E dovesti uscire... «Sì ma al quindicesimo del secondo tempo». Alla fine che ti dissero? «Niente. Non c’ero più. Appena sostituito tornai a casa». E la convocazione di Menotti, sul serio non arrivasti perché ti fermasti a pescare o è una balla? «I pesci abboccavano». Forse era vero. Forse fece abboccare anche me. «Sei sicuro che fosse davvero lui, al telefono?» mi chiesero in molti. Ho riconosciuto la voce in un documentario della tv spagnola. Lui, inevitabilmente simile a un Meroni invecchiato, o un Vendrame, un Sollier, stesso ceppo, parla lento davanti a un murale con la sua faccia, vernice fresca, dipinto per l’occasione. Non crede alla telecamera: ha giocato soltanto 4 volte in serie A, chi lo elogia sa niente o poco di lui. Si cambiava da solo prima della partita. Ha smesso di sorridere sei anni fa, dopo la morte di sua moglie Nancy. Si dedicava ai nipoti. Guardava le partite al bar, non ha mai fatto un paragone. Lo faccio io, adesso: tutti abbiamo negli occhi della mente il gol in serpentina di Maradona all’Inghilterra. La rovesciata di Carlovich possiamo solo immaginarla. Per questo è impossibilmente superiore.