La Stampa, 10 maggio 2020
La prigionia e il tempo rubato nelle foreste dei talebani d’Africa
Libera: in una parola è stato detto tutto e tutto resta da dire. Quando il sequestro finisce e vedi per la prima volta non più le facce dei tuoi carcerieri o il muro del luogo in cui sei stato prigioniero nulla è paragonabile al silenzio che scende dentro di te. Badate bene, il silenzio. Non urla di gioia, ebrezza, emozione. Il silenzio. Quelli che ti sono intorno ti abbracciano e gridano, in un meraviglioso parapiglia, la loro felicità: niente, solo un mormorio, una nota eguale e interminabile come un filo teso, un suono confuso che non riesce a diventare voce.
Nulla è paragonabile al silenzio gonfio, travolgente di chi ritrova la libertà. E la vita. Per Silvia Romano racchiude due anni, due anni!, di grida di spavento, preghiere strangolate, e tutto quanto potete metter nelle tenebre di una cenere senza nome e senza fine. Anche la paura di essere dimenticati mentre si è ancora vivi. Sì, anche quella. Poi la fine viene e ti domandi se esista una arte di prepararsi alla liberazione. Che non è meno ardua dell’arte di prepararsi alla morte.
Credo che anche Silvia Romano, in questo spazio interminabile in cui i suoi carcerieri somali le hanno rubato, ferocemente e definitivamente, attimi, ore, giorni, mesi, anni, abbia interrogato il tempo con la meravigliosa espressione del prete di Giudea: a che punto è la notte? Oggi finalmente! Il tempo risponde: la notte che prima era nera e spessa, era ovunque, ora è finita. Ad Afgoi, al chilometro trenta della vecchia strada coloniale italiana, con un blitz dei servizi segreti somali e dei turchi, i nuovi padroni economici, e non solo, della Somalia.
La memoria di quei giorni
Sono passati poche ore e i ricordi, la memoria di quei giorni sembrano rattrappirsi: è strano, ma accade. Cosa fare per farla correre indietro e per raccoglierla?
Che cosa? In quale stato con quale scopo, come fare per seguirla nei suoi sussulti? Per meditare le tracce che lascia dietro di sé?
Ora gli chiederemo i particolari, vorremo sapere tutto. Già: tutto. Come è sopravvissuta lei fragile volontaria della estenuante battaglia per il rispetto della dignità di ogni uomo alla mischia sacrilega della Somalia e dei suoi apostoli criminali, che cosa le hanno fatto, loro capaci di sradicare con la violenza anche le anime più salde. Perché la storia di Silvia Romano che è cominciata in un giorno di novembre a Chakama, in Kenya, dove operava come cooperante è la cronaca di un incontro con il male. Che da quarant’anni si è insediato in Somalia, un luogo dove è sufficiente abbassare le palpebre perché la tragedia vi prenda in pugno e vi porti dentro di sé. Là, niente dall’inizio degli anni Novanta è cambiato.
I talebani d’Africa
All’inizio si cercava nel suo sequestro l’indizio di un fatto di criminalità locale. Era, invece, una operazione di guerra degli Shabaab, i talebani d’Africa. Cercavano lei, che il prossimo più desolato ha tentato, e ha sagomato la vita su questa determinazione cocente. Solo una occidentale, una "crociata’’, per il gruppo guerrigliero metà criminale e metà jihadista che si è infilato nel grande palcoscenico del fondamentalismo prima come esotica e periferica comparsa per poi diventarne la costola più pericolosa del jihad universale. Forse Silvia non l’ha mai sentita pronunciare dai suoi carcerieri questa parola, ma la sua vita è stata appesa a questo nome, "Amnyat", l’ufficio di sicurezza degli Shabaab, il cuore militare della organizzazione.
Adesso che la ragazza italiana è libera, e ci sono degli arrestati nel blitz, comparse o capi bisognerà accertare, la procura somala e gli uomini dell’antiterrorismo che ne hanno seguito le tracce, sempre cercando di non metterla in pericolo, potranno risalire i fili degli organizzatori del sequestro.
Amnyat l’ha rapita con un raid di un gruppo di guerriglieri-pirati creato nel 2012 per mettere a segno operazioni nel Paese vicino. Lo schema è quello classico del terrorismo militare: creare nuovi fronti di instabilità, trascinare nel baratro il Kenya con attacchi suicidi imboscate mine sulle strade. E sequestri.
Bisognerà ripercorrere gli spostamenti dal novembre del 2018 di Silvia, trovare conferma delle sue prigioni, attraverso lo Shebeli, il Jubaland, una distesa di solitudine, da una acacia all’altra, da un villaggio all’altro, orizzonti appena ondulati, immani estasi di piani dove si levano come calici mulinelli di polvere solenni e immoti: la prigione di Jilib in una casa vicino alla grande moschea, a Janale a un passo dalle dune d’oro di Merka. In fuga per sfuggire ai droni americani.
Nella foresta degli elefanti
Prima di Afgoi l’ultima prigione è stata, quasi certamente la foresta degli elefanti, una grande area selvaggia nel Sud Ovest dove gli Shabab nascondono le loro più in visibili prigioni. Qui il sole si incendia e gli alberi in una atmosfera arroventata spiccano neri, giganteschi, deformi. La notte scende dura pesante come un coperchio.
Nella foresta passa un vento stanco dalle ali fredde come quelle di un uccello morto. I somali dicono che quella è l’ora degli spiriti maligni.