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 2020  maggio 10 Domenica calendario

Intervista alla vedova di Marco Luchetta

Zlatko, 4 anni, si risvegliò a Mostar dopo due giorni di coma. Le sue prime parole furono: «Dov’è Marco?». Lì per lì, nessuno ebbe il coraggio di dirgli che Marco Luchetta, 41 anni, giornalista della sede Rai di Trieste, era morto facendogli scudo con il proprio corpo. Non solo lui: anche l’operatore Alessandro Ota e il tecnico di ripresa Dario D’Angelo. «Zlatko, curiosissimo, quel 28 gennaio 1994 li aveva seguiti fuori dal rifugio: venne ritrovato sotto i loro tre cadaveri, dilaniati da una granata», racconta Daniela Schifani Corfini, vedova di Luchetta. «L’ultimo gesto di mio marito fu una carezza sulla sua testolina per spingerlo a tornare dentro il nascondiglio».
La signora Daniela, rimasta sola a 36 anni con due bimbi di 10 e 8 da crescere, fin dal giorno del funerale sentì di essere diventata in qualche modo madre di un terzo figlio: «Era come se Marco mi dicesse: “Non abbandonarlo!”». Aiutata da sei amici, bussò a mille porte e riempì incartamenti d’ogni tipo. A luglio spedì un medico a Mostar a prendere Zlatko. Per un mese ospitò il piccolo ferito e la mamma Sanela a Trieste, lo fece curare, poi aiutò entrambi a ricongiungersi in Svezia con papà Adis, scampato a un lager in Bosnia. Oggi Zlatko Omanovic è un ragazzone alto 1,90, si è laureato, tira di boxe e abita con i genitori a Göteborg. 
È nata così la Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin. «Abbiamo aggiunto il nome anche del terzo cineoperatore triestino della Rai, che fu ucciso con Ilaria Alpi in Somalia 51 giorni dopo. Povero Miran, l’ultima volta lo vidi al funerale del mio Marco», ricorda la presidente. In 26 anni la sua Onlus ha assistito oltre 800 bambini feriti nelle guerre o affetti da patologie non trattabili nei loro Paesi e accolto 1.500 familiari che li accompagnavano. Senza aiuti pubblici. Anzi, quando nel 2018 l’Accademia dei Lincei le conferì il premio Feltrinelli per l’opera umanitaria svolta, i 250.000 euro della dotazione si ridussero a 187.500 perché lo Stato trattenne il 25 per cento. Se avesse vinto all’Eredità, avrebbe risparmiato: per le vincite in tv la tassa è del 20. 
Quando conobbe suo marito? 
«A 17 anni. Ma io avevo un altro e lui un’altra. Ci mettemmo insieme il 2 gennaio 1980. Dopo una partita di basket, si offrì di riaccompagnarmi a casa. Finse che l’auto non ripartisse per restare a chiacchierare tutta la sera». 
Che cosa la colpì di lui? 
«Questo. Era ironico ma profondo. Attraeva gli altri con l’allegria. Infatti aveva esordito a Telequattro con un programma molto popolare, Il pinguino, candid camera in giro per Trieste e sketch». 
Cercò di dissuaderlo quando decise di occuparsi del conflitto nei Balcani? 
«Sarebbe stato inutile. Veniva da quelle terre: la sua famiglia è di origine dalmata. Era stato in Bosnia più volte. E le cose brutte capitano solo agli altri, no?». 
Quando le disse che andava al fronte? 
«A luglio 1993, in spiaggia al Bagno militare di Trieste, buttò lì: “Nessun giornalista è entrato a Mostar est. Pensa che servizio verrebbe fuori dando voce ai musulmani assediati dai croati”. Ebbi un sussulto: non vorrai farlo davvero? E lui: “Nooo!”. Invece sei mesi dopo partì». 
I suoi figli come reagirono? 
«Carolina stava per compiere 10 anni, Andrea ne aveva 8. Stupidi non erano, ma lui sapeva come rassicurarli». 
Si saranno sentiti traditi. 
«Penso di sì. L’infanzia è l’incanto di credere ciecamente a papà e mamma. Dovettero crescere di colpo. Dopo la tragedia, Andrea mi chiese: “E se adesso muori tu, che succede?”. Ma io non morirò, gli risposi. Scosse la testa: “Mamma, tu il futuro non lo sai proprio predire”». 
Terribile. 
«Lo stesso Carolina. Un giorno vedemmo un suo amico che s’impennava con il motorino e commentai: ma perché rischia l’osso del collo? Lei replicò: “Perché lui non sa che si muore. Io sì”». 
Quando parlò con suo marito per l’ultima volta? 
«Il 27 gennaio 1994. Mi disse che sarebbe entrato a Mostar est due giorni dopo con un blindato dell’Onu. Perciò, quando l’indomani si sparse la notizia di una troupe uccisa, ero sicura che non parlassero di Marco, Alessandro e Dario. Fu mio cognato, anche lui giornalista alla Rai di Trieste, a svelarmi la cruda realtà». 
Che cosa accadde, con precisione? 
«Quando furono colpiti dalla granata, erano appena usciti a prendere gli spot necessari a illuminare il rifugio in cui stavano girando per il Tg1 un servizio sui “bimbi senza nome”, orfani, abbandonati, nati da stupri, che dovevano essere candidati al premio Nobel per la pace. Zlatko li aveva seguiti. Un bimbo eccezionale, bravo, intelligente. Un soldatino. Nell’anno passato dentro quel buco, la mamma gli aveva insegnato a leggere e scrivere». 
Lei a chi o a che cosa si aggrappò? 
«Lo strazio terribile provato dai miei figli non mi dava pace. Però mi ha impedito di pensare al mio dolore. Volevo che tornassero a sorridere. Mi ha salvato il fatto di essere l’ultima dei cinque figli di una famiglia di stampo meridionale: è stata una forza. Così come la scuola. Insegno ancora alle medie De Tomassini di Opicina. Nessuno più dei ragazzini è capace di portarti via con la testa. Loro hanno aiutato me, non viceversa». 
Si è rifatta una vita? 
«Grazie a Dio, dal 2003 convivo con una persona. Se questo significa rifarsi una vita, me la sono rifatta. Ma la vita è una sola, alla fine. Trova uno scopo unicamente se cerchi di voler bene a chiunque incontri. Ho girato pagina, questo sì. Però io resto io, mi porto tutto dentro». 
E i suoi figli? 
«Carolina ha una laurea in Scienze dell’interculturalità e un master in Antropologia conseguito a Londra. Lavora in una cooperativa che assiste i rifugiati politici a Firenze. Andrea si è laureato in Scienze diplomatiche a Ginevra e poi mi ha annunciato: “Farò il giornalista”». 
C’era un posto vuoto da riempire. 
«Non ha mai detto in giro di essere il figlio di Marco Luchetta. Ha fatto una dura gavetta tra Riformista, Gazzetta dello Sport, Pagina 99 e altre testate. Ha partecipato a un concorso Rai con 5.000 candidati e si è classificato terzo. Lo hanno assunto al Tg1, lavora per “Tv7”». 
Teme che segua le orme del padre? 
«Non ci voglio pensare. Per ora sta in Italia. Andrà dove lo manderanno. Deciderà quello che sarà meglio per la sua vita. È tornato a Mostar varie volte, con mia figlia Carolina e anche con Zlatko». 
Da dove arrivano i bimbi che curate? 
«Africa, Balcani, Siria, Iraq, Kurdistan. Abbiamo assistito per sei mesi due piccoli palestinesi sopravvissuti al bombardamento israeliano del 2014 nella Striscia di Gaza, in cui morirono quattro loro fratelli e cugini con i quali giocavano a pallone sulla spiaggia. Avevano schegge nella testa e deficit dell’udito». 
Come decidete chi far curare? 
«Ci affidiamo a Dino Barbi, primario dell’ospedale infantile Burlo Garofolo. Valuta le cartelle cliniche, appronta le terapie possibili, ci fa avere i preventivi». 
Paga tutto la fondazione? 
«Certo. Un trapianto di midollo costa come minimo 60.000 euro. Un piccolo leucemico albanese ne ha dovuti subire due. Per le patologie cardiache ricoveriamo i bimbi a Milano o a Firenze. Autisti volontari ci regalano un giorno a settimana, facendo la spola fra aeroporti e ospedali. Abbiamo tre case d’accoglienza, 76 posti letto in tutto». 
Dallo Stato non arriva proprio nulla? 
«Nulla. Viviamo solo di elargizioni dei privati, di qualche lascito testamentario, di aiuti da altre associazioni, come la onlus Bambini del Danubio. Marino Steffè, un ex bancario, morendo ci ha lasciato una casa a Bristie, sul Carso, e 300.000 euro. Trieste sembra una città chiusa, ma sotto la scorza dura batte un cuore grande. I bisogni dei poveri sono infiniti. Offriamo cibo. Abbiamo intitolato a Elide Riccobon, una signora morta nel 2019, il centro di raccolta che aveva presidiato per anni, distribuendo abiti usati, scarpe, lenzuola, coperte, articoli per l’infanzia, giocattoli, libri. Nelle case popolari Ater di Montebello, dove vivono 160 ragazzini e appena 48 anziani, ci facciamo carico del doposcuola». 
Nota meno coscienza sociale nei suoi studenti di oggi rispetto a quelli di ieri? 
«No, i giovani di ogni epoca sono uguali, guardi come hanno risvegliato il mondo sui temi ambientali. Sono loro a chiedermi di parlare in classe della guerra nell’ex Jugoslavia, dei diritti umani violati, delle sofferenze dei bambini». 
C’è qualcosa di peggio della guerra? 
«L’indifferenza. M’indigna». 
Le pongo una domanda paradossale, molto dura: rinuncerebbe alla fondazione pur di riavere indietro suo marito? 
«Questo non me lo deve chiedere». (Sorride mestamente). «Equivale all’interrogativo: “Vuoi più bene alla mamma o al papà?”. Non le posso rispondere. Se mi volto indietro, vedo 800 bambini che hanno ricominciato a vivere. E non riesco a compararli con la vita di un solo uomo, anche se era mio marito». 
Avevate mai parlato del rischio che la sua professione potesse costargli la vita? 
«Sì, ma arrivando sempre alla stessa conclusione: no, dài, non può succedere... Non saprei dirle se parlavamo così per incoscienza o per autodifesa». 
Posso chiederle dove riposa Marco? 
«Le sue ceneri sono qui, nella sua Trieste, nel cimitero di Sant’Anna». 
Che cosa si legge sulla lapide? 
«Una poesia di Vincenzo Cardarelli: “Non so dove i gabbiani abbiano il nido, / ove trovino pace. / Io son come loro / in perpetuo volo. / La vita la sfioro / com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo. / E come forse anch’essi amo la quiete, / la gran quiete marina, / ma il mio destino è vivere / balenando in burrasca”».