Tuttolibri, 9 maggio 2020
La pigrizia è un’arte meravigliosa
Una buona pigrizia bisogna conquistarsela. Mica tutti sanno essere pigri. Mica sono in tanti quelli che sanno darsi al dolce far niente, che sono capaci di sprecare con gusto e coscienza il tempo che scorre e, forse, la vita intera. Poltrire è un’arte. E, come tutte le arti, prima che un plauso, esige un lungo periodo di apprendimento, un vero e proprio sforzo (fisico come intellettuale) per impararne le tecniche giuste, per gestire una vocazione pertinente. Pigri si nasce? Macché: piuttosto si diventa, se si ha la capacità di fiutare l’aria che tira, di insinuarsi nelle pieghe di un mondo in continuo divenire e, soprattutto, di lottare contro le sirene stakanoviste che inneggiano al lavoro come realizzazione di sé, all’azione come principio primo e fine ultimo dell’essere umano.
E in un periodo di ozio forzato qual è quello che stiamo vivendo, riuscire a essere pigri è ancora più difficile e straziante. Alla prova dei fatti, la gente non ce la fa, abituata com’è a un regime di vita dove occorre essere sempre presenti e prestanti, per cui lo stare obbligatoriamente in panciolle è vissuto come un incubo, una tortura cinese. La nostra, è stato detto, è una società della prestazione, una società nella quale è saltata ogni differenza fra impegni e svago, di modo che il tempo libero è ancora più affannoso, stancante, performante di quello del lavoro. I nostri consumi sono – devono essere – altamente produttivi: siamo tutti dei «prosumer». Nella pausa pranzo dall’ufficio ci fiondiamo in palestra per misurarci coi nostri muscoli guizzanti. Terminate le fatiche del call center, torniamo ad allenarci per l’ennesima maratona. Poi andiamo al supermercato per la spesa d’ordinanza, e subito a casa per preparare l’immancabile cena gourmet, badando a non dimenticare le indicazioni della nutrizionista. Una lezione di tango chiude la giornata. Mai fermi, mai pigri. Per rilanciare inseguiamo il nostro mito infantile: partecipare alla prossima gara di Ironman in un gelido paesino dei fiordi, facendo del nostro corpo una macchina, e sfiorando la dimensione fumettistica del supereroe. Ancora allenamenti su allenamenti, nel cosiddetto tempo libero, sfiancandoci sino all’esaurimento, con l’app dello smartphone che ci informa sul livello di rendimento raggiunto dal nostro corpo. Per non parlare delle vacanze, ottima occasione per destinare allo sport l’intera giornata, salvo poi, tra una gara e l’altra, godere di lunghe escursioni sulla cima del vulcano più vicino.
Pretendere un’amaca, in un mondo così, fa specie. Fa strano. Fa incavolare moltissimo. «Ma chi si crede di essere costui – si chiede accigliato il capo del villaggio turistico – per venire sin qua a non far nulla? Siamo in vacanza? Al lavoro dunque!». La fatica di essere pigri, capiamo allora, è direttamente proporzionale alla fatica del vivere che le varie società e le diverse culture impongono agli individui: è una forza che resiste a un’altra forza; un progetto personale di vita che contrasta l’organizzazione biopolitica della nostra esistenza.
Le lingue, di questo conflitto sotterraneo, sanno già tutto. Il pigro, secondo il dizionario italiano, è qualcuno «che cerca di evitare la fatica e l’impegno», che sgobba dunque per non strapazzarsi, per eludere gli impegni che il mondo gli impone. Più che il latino (dove piger vuol dire immobile, sterile, improduttivo), è il greco a essere più chiaro in merito: nella lingua di Platone e Aristotele pigro è argos, contrazione di a-ergos, dunque negazione del lavoro, dell’azione operosa, dell’esecuzione di un compito qualsiasi. Analogamente in francese, dove paresse è il «comportamento di qualcuno che evita ogni sforzo», e anche in spagnolo, dove pereza indica «negligenza, tedio o trascuratezza nelle cose di cui siamo obbligati». Perfino l’inglese lazy indica qualcuno che non ha «alcuna volontà di lavorare o di essere attivo». Insomma, per esserci pigrizia ci deve essere prima un obbligo e poi un rifiuto a onorarlo.
L’eroe della pigrizia non può essere che Paperino, la cui utopia lavorativa, si ricorderà, è quella di fare il collaudatore di materassi. La sua pigrizia è proverbiale, proprio perché è meticolosamente costruita entro un preciso sistema dei personaggi e grazie a una struttura narrativa ricorrente. Anche Gastone è pigro: è talmente fortunato da non aver bisogno di lavorare. E pure Ciccio, il fattore di Nonna Papera, il quale non fa altro che oziare: mangia e dorme senza nessuno che lo stia a scocciare. Ma la pigrizia di Paperino è diversa, ed è tanto più forte quanto più contrasta le mille fatiche che Paperone gli impone. L’amaca è il luogo da cui Paperino viene strappato all’inizio di ogni peripezia, e dove ritorna quando la vicenda si chiude. La pigrizia è, per lui, principio e fine d’ogni forma d’azione, quindi passione con cui incorniciare le stancantissime avventure che si ritrova a vivere suo malgrado. Uomini e cose lottano contro di lui: non solo lo zio taccagno, dunque, ma chiunque altro – i nipotini, un vicino di casa, un vigile urbano… –, e perfino gli oggetti. Si pensi al celebre cartone dove un rubinetto che gocciola gli impedisce di chiudere occhio. O a quell’altro dove il letto si trasforma nel tappeto di un fachiro. Per quanto si incontrino pochissimo, il vero antagonista di Paperino è però Topolino. Quanto Topolino è uomo d’ordine, rispettoso della legge e dello status quo, tanto Paperino è uomo del disordine, se non anarchico in ogni caso affatto distante da ogni forma di legalismo. Topolino lotta per un futuro migliore, crede nelle magnifiche sorti e progressive dell’american way of life. Paperino vede nella società una macchina generatrice di angherie, e non manifesta ottimismo circa il progresso. Topolino accetta il mondo per com’è, e ne difende i principi di fondo. Paperino è un assoluto individualista. Insomma: quanto Topolino è solerte, tanto Paperino è pigro. Da questo punto di vista, lo Snoopy di Schultz è il suo più abile seguace.
La lotta senza quartiere di Paperino – lotta che ne fa, oggi, un eroe al quadrato – è contro il sistema di produzione capitalistico e, a monte, con quel suo braccio armato che è il calvinismo. Un calvinismo diffuso, surrettiziamente vincente per ogni dove e ogni come. A scorrere la storia della pigrizia, dalla maledizione biblica contro Adamo sino al regime attuale dell’impegno 24h, passando per l’otium letterario, il vizio dell’accidia, l’enciclopedismo illuminista, l’economia politica, il marxismo, il falansterio e le retoriche del leisure, si coglie molto chiaramente l’interdipendenza fra attivismo sfrenato e dolce far niente. A seconda del modo in cui, volta per volta, è stato concepito il lavoro – maledizione, schiavitù, servaggio, dovere sociale, lode a Dio, essenza dell’uomo, realizzazione di sé, aspirazione inarrivabile… –, è stato inteso l’ozio: opportunità per coltivare le arti e le scienze, vizio che ne genera tanti altri, meritorio tempo libero susseguente gli impegni dovuti, esercizio di felicità, avvilente forma di disoccupazione. C’è per esempio tutta una tradizione anglosassone – da Stevenson a Chesterton, da Wilde a Russell etc. – che si spertica in elogi dell’ozio: si tratta di altrettante reazioni ai disastri della Rivoluzione industriale che in Inghilterra si sono fatti sentire ben prima di altri paesi. Alla battaglia generalizzata che i proprietari d’industria lanciano contro gli «scansafatiche», rei di non sottomettersi al regime di duro lavoro praticato negli opifici, si risponde colpo per colpo con una serie di testi che in vario modo tessono le lodi dell’ozio come condizione primaria dell’uomo. In altro ambiente culturale ne sa qualcosa Paul Lafargue, famigerato genero di Karl Marx, che al manifesto del ’48 sul Diritto al lavoro replica con un durissimo Diritto alla pigrizia: «la pigrizia – scrive – rispetta i diritti dell’uomo ben più che il lavoro. Proclamare che il diritto dell’uomo è quello di poter lavorare è ribaltare le condizioni naturali dell’esistenza, facendosi ingannare dalle morali sociali che il cristianesimo prima e il capitalismo dopo hanno spacciato per universali». Una bella botta.
L’apoteosi della pigrizia si ha in sede letteraria con Oblòmov, eroe eponimo del celebre (ma pochissimo letto) romanzo di Ivan Gončarov del 1859. Basti dire che nelle prime 150 pagine del libro Il’jà Il’ic Oblòmov non s’alza mai dal sofà del salotto, dove usa trascorrere quasi tutto il suo tempo osteggiando le pretese di tutti quegli «altri» che lo desidererebbero più attivo. Oblòmov è una specie di Cenerentolo disperso nella Pietroburgo ottocentesca, dove esercita una dura resistenza verso tutti quei cambiamenti che il mito moderno del progresso cerca di imporgli. Rimpiange l’età dell’oro della sua infanzia orientale, sogna le mollezze familiari e l’atavico inattivismo dei contadini che lavorano malamente le sue terre. Ma comprende bene – quasi fisicamente, nelle sue stesse carni – che nulla del genere potrà mai ritornare. Così, sta perennemente disteso sul divano, vivendo nel sudiciume, fra le ragnatele, accanto alla stufa per scongiurare il freddo della città, aspettando non si sa bene che cosa e perché. E anche quando proverà a cambiare, dando retta al mondo che lo vorrebbe prestante, presente in società e turbato da amori che altri considerano necessari, capirà ben presto di sbagliare: proprio non ne vale la pena. Cosa che sa benissimo, in altro contesto e per tutt’altre ragioni, lo scrivano di Melville, quel Bartleby che resta ostinatamente senza far nulla nella Wall street ottocentesca in piena frenesia finanziaria.
Da qui un’affermazione come quella di Roland Barthes, straordinario cantore di un ozio propedeutico alla scrittura romanzesca, secondo il quale «ciò che è terribile della pigrizia è che può essere la cosa più banale, più stereotipata, meno pensata del mondo, come può essere quella più pensata». Pensare la pigrizia è allora già un modo per darle una mano, per appoggiare quelle fatiche che essa deve e vuole vivere per conquistare la sua amaca, diciamolo pure, metafisica. In questo, Barthes pensa alla saggezza orientale degli haiku, per i quali la poesia del mondo sta nell’inoperosità. Così Basho : «Seduto pacificamente senza far nulla / viene la primavera / e l’erba cresce da sola».