Tuttolibri, 9 maggio 2020
Ben Pastor spiega perché cadono gli imperi
«I cittadini romani dell’Impero di Occidente mica se l’aspettavano, la caduta. Non così presto almeno. E avevano ragione, la struttura in sé poteva durare ancora centinaia di anni, basta vedere cosa è successo a Oriente... È stato l’ego di pochi uomini di potere a premere l’acceleratore sulla crisi e a distruggere una creazione grandiosa. A pensarci viene una gran malinconia». Aggiungiamoci pure un brivido di premonizione, complice il clima apocalittico di questi giorni, nel sentire le parole di Ben Pastor (all’anagrafe Verbena Volpi Pastor), una donna di frontiera, sia nella vita personale - divisa da sempre tra Italia e Usa - sia nel regno dell’immaginario, abitato da popoli in crisi e sull’orlo di cambiamenti epocali. È vero per il ciclo di gialli su Martin Bora, tormentato ufficiale dell’esercito nella Germania nazista, come per il «fratello minore», Elio Spaziano, comandante pannonico nella cavalleria dell’Impero alla vigilia dell’ennesima guerra civile. È lui il protagonista de La grande caccia a un tesoro antico nella Palestina romana, nel periodo dell’ascesa al potere di Costantino il Grande.
I gialli di Spaziano sono affreschi di vita romana, descritta fin nelle minuzie burocratiche: un’organizzazione magnifica di strade, uffici e presìdi e anche un forte senso di appartenenza. Come è potuta crollare così di botto?
«La disgregazione era inevitabile, le distanze erano enormi e all’epoca, benché pretori e tribuni corressero a cavallo da una parte all’altra dell’Impero, era difficile tenere insieme genti tanto diverse. Ma si sarebbe potuta dilazionare, non fosse stato per l’ambizione di pochi. Quanto al senso di appartenenza, è vero, persone come Spaziano, uomini nuovi, devono tutto a Roma e si identificano profondamente con l’Impero, che ha permesso loro di studiare, viaggiare, conoscere mondi diversi e diventare internazionali. Almeno a livello razionale: in tutti loro resta una parte selvaggia, che in qualcuno, come Costantino, prevale».
Perché suona così attuale?
«Ahimé, gli uomini di potere spesso non leggono la storia. Il mondo naturalmente oggi è molto più complicato, il potere ha perso la connotazione politica ed è soprattutto economico. Ma come i romani, non ci accorgiamo degli scricchiolii, delle ombre che si insinuano nella nostra società. Dobbiamo stare attenti, in questa fase a non buttare via tante conquiste».
Lei come vive quest’altra grande crisi, la pandemia?
«Mi divido da sempre tra Italia e Stati Uniti: ho vissuto la giovinezza e gli anni della formazione in Italia, la maturità negli Stati Uniti, infatti scrivo in inglese, e ora torno sempre più spesso in Italia. Il Covid mi ha sorpreso nella mia casa dell’Oltrepò Pavese e qui resto, preoccupata per mia figlia immunodepressa in Usa. La crisi ci colpisce duro perché siamo una civiltà che rifiuta il rischio e non accetta la morte. Vogliamo controllare tutto e invece il virus, come la natura, non si controlla».
I suoi protagonisti sono entrambi soldati. Cosa la affascina nella figura del guerriero?
«Beh, intanto è un mondo che conosco bene, sono stata sposata per anni con un militare americano. Sia ben chiaro, la guerra non ha nulla di affascinante. Quello che mi affascina è la generosità dei giovani uomini pronti a mettere la loro vita in gioco per la collettività. Il soldato è uno che paga di persona, che sta in prima fila. È un’estrema semplificazione della vita, molto maschile. In fondo il militare è un estremo maschile, misterioso per noi donne: come resta un mistero la fratellanza virile, ben diversa dalle amicizie femminili».
«La casa del soldato è la sua sella» dice Spaziano. Però questa libertà è molto limitata, perché il soldato è tenuto a obbedire agli ordini, no?
«E questa è un’ulteriore semplificazione della vita. La responsabilità limitata nelle decisioni giustifica agli occhi di se stessi. Poi, certo, il soldato vive sempre sulla frontiera e in questo ha qualcosa in comune con me che vivo da sempre al confine tra due paesi».
Dica la verità, preferisce Bora o Spaziano?
«Non posso scegliere, sono due figli. Bora è il figlio difficile, disadattato, misterioso, che non ti appartiene mai del tutto. Fa parte di una generazione sventurata, che anche quando è sopravvissuta non è mai tornata davvero a casa dalla guerra. Spaziano è il figlio facile, biondo, forte: quello che non crea problemi, che sorride sempre. Ciò non vuol dire che sia stupido o superficiale».
La prego, non li faccia mai morire: noi lettori soffriamo sempre quando muore un personaggio.
«Le dirò che inizialmente ne avevo l’intenzione, ma non ci riesco più. Per me ormai esistono realmente e hanno una vita propria, che non controllo. Devo lasciarli andare».
Spaziano ha un suo alter ego, con cui forma una strana coppia. Baruch ben Matthias, più anziano e astuto di lui. Si detestano ma in realtà si stimano.
«Sì, sono una coppia nata all’inferno, dico io. Non hanno nulla in comune: uno è anziano e appartiene a un popolo, quello ebraico, antichissimo; per cui ha uno sguardo smagato, cinico, metropolitano sulla realtà, l’altro è giovane e appartiene anche a un popolo giovane, con le ingenuità del caso. E’ come mettere insieme Woody Allen e John Wayne. Eppure sono incuriositi l’uno dall’altro, si riconoscono a vicenda valore intellettuale, creano quasi una dinamica padre figlio».
Sia Bora che Spaziano tengono un diario e scrivono molte lettere. Come mai? È solo un espediente letterario?
«È anche un espediente letterario, naturalmente. Ma è sopratutto un modo per aprire uno spiraglio sull’interiorità di persone che la custodiscono gelosamente e certe cose non le direbbero mai, né mai le farebbero trapelare nelle azioni. Si impara moltissimo dalle lettere. Io ho capito come funzionava la mente romana grazie alle lettere di Cicerone e Plinio».
Lei è archeologa di formazione, giusto?
«Sì, sono legata a filo doppio con l’antichità per i miei studi e le mie radici: da parte di madre appartengo a una famiglia di ebrei romani convertiti, una stirpe antichissima, per loro il mondo si è fermato al Tempio. Adoro il lavoro di ricerca dietro ai libri. A questo in particolare, perché mi ha permesso di tornare in Palestina. Una sfida affascinante soprattutto dal punto di vista cartografico, perché i luoghi mutavano continuamente di nome».
Parlando di formazione, i suoi libri preferiti?
«Ho letto tutti i classici da ragazza. E adorato i russi, il Tolstoj di Resurrezione e Dostoevskji in testa, per la grandezza sintattica, di periodo, di pensiero. Poi più avanti ho imparato la storia minima, la raffinatezza psicologica e l’attenzione ai dettagli da Ernst Wiechert, raffinato narratore della Prussia orientale. Per la tecnica devo molto a Yukio Mishima, mi ha dato l’idea di come può essere ampio il respiro dello scrittore. E amo Toni Morrison, non smetto mai di rileggerla e imparare. Ma i miei eroi preferiti in assoluto sono Don Chisciotte e Moby Dick».
C’è un po’ del capitano Achab nel libro...
«Certo, il capitano Nepote: gli ho anche dato lo stesso nome benché tradotto. Achab vuole dire nipote. Mi piace moltissimo Achab, perché ha la stessa mente della balena, un’ansia di infinito. La sua frontiera, come la nostra, si sposta sempre più in là».