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 2020  maggio 09 Sabato calendario

Intervista a Ian McEwan

Ian McEwan oltre che scrittore eccelso è uno degli intellettuali più autorevoli e ascoltati in Gran Bretagna. Quando interviene nel dibattito pubblico lo fa con posizioni precise e forti, spesso divisive. Contro i fondamentalisti islamici ha speso parole pesanti («li aborrisco»). Sulla Brexit, nella frustrazione del dopo referendum, ha detto che era necessario «aspettare che morissero un milione di vecchi per poter tornare a votare a far vincere i sì all’Europa». Come sappiamo la storia ha girato in un’altra direzione, ma McEwan ha continuato a tuonare contro la Brexit in ogni occasione. La scorsa estate, ha acceso il computer e ha iniziato a scrivere di getto, seguendo il filo di una scena iniziale: uno scarafaggio si sveglia una mattina nel corpo del primo ministro britannico. Tre settimane e la novella (o forse è meglio chiamarlo pamphlet satirico?) era finita. E ora eccola qua.
Lo raggiungiamo al telefono nella sua casa di campagna nel Gloucestershire. La voce va e viene, perché c’è un gran vento e una specie di tormenta che scuote le finestre del suo studio. «Sono nove giorni che piove e soffia. Ho davvero l’impressione che il cielo sia arrabbiato - esclama-, e poi non mi dicano che il clima non sta cambiando».
Al clima arriveremo. Ma adesso partiamo dall’inizio. Perché ha scritto questo libro? 
«Lo Scarafaggio credo sia nato quando la mia frustrazione e la rabbia per la Brexit sono arrivate a un tal punto che sono andate oltre e hanno incontrato il lato ridicolo dell’intera vicenda. Direi che nasce dallo sconforto per un processo politico che mi sembra del tutto inutile e di cui ho voluto mettere in evidenza il lato comico».
Ha definito "Lo scarafaggio" una "risposta terapeutica" al caos della Brexit. Ha almeno trovato sollievo alla rabbia, nello scriverlo? 
«Forse poteva avere qualche intento terapeutico per me stesso, ma non mi aspettavo certo che il mio libro avrebbe cambiato qualcosa e infatti il mondo è rimasto uguale a se stesso. Quindi in verità la terapia è fallita». 
Il suo scarafaggio trasformato in primo ministro ha come missione quella di mettere in pratica il piano "inversionista". Una teoria per cui si inverte il flusso del denaro: per arrivare alla piena occupazione e sconfiggere la crisi economica, i lavoratori devono pagare i datori di lavoro per lavorare, i negozi pagano i consumatori per consumare. Come ha potuto pensare a una tale assurdità? 
«Beh, l’inversionismo è assurdo quasi come la Brexit. Il parallelo è negli argomenti economici autolesionisti della Brexit, che non hanno mai avuto senso per me né per nessuno degli economisti che conosco. Non so come mi sia venuto in mente. Mi sembra però simile a un sacco di teorie che si fanno strada nel mondo e che non hanno nessun riscontro nella realtà. Tu puoi inventarti una teoria e convincerti che sia vera e l’inversionismo è qualcosa del genere. Con Brexit è successa la stessa cosa. Alla fine, anche tra i brexitari, nessuno ha mai portato un argomento economico a favore. Anche l’ultima campagna elettorale (quella che ha portato alla vittoria di Boris Johnson e del partito conservatore il 12 dicembre, ndr) è stata fatta su tre parole: "Get Brexit done". Facciamo la Brexit. Boris Johnson non ha detto: più lavoro, più soldi, una vita migliore. Diceva solo: facciamola finita con questa agonia. Ma chi l’ha creata, questa agonia? Loro». 
C’è un passaggio cruciale nel libro, quando la cancelliera tedesca Angela Merkel incontra Jim Sams e gli chiede perché avete fatto la Brexit. E lui dopo vari tentativi dà l’unica risposta possibile: perché sì. Al di là della satira, lei ha capito perché Brexit è accaduta? 
«Dopo tre anni, si è smesso pure di chiederci il perché. Il problema era solo di mettere fine all’agonia. Ma l’inversionismo spiega abbastanza bene l’assurdità del tutto». 
L’inizio è un chiaro richiamo kafkiano. Poi si ispira più a Jonathan Swift, l’autore dei "Viaggi di Gulliver" e della "Modesta proposta", uno dei capisaldi della satira politica britannica... 
«Sì, ho letto Una modesta proposta quando avevo sedici anni e già allora mi aveva colpito tantissimo. Mi ricordo che ci avevo scritto una tesina per la scuola. Non so se è così conosciuta fuori dall’isola, ma è una satira politica davvero acuta sul comportamento degli inglesi in Irlanda. Swift suggerisce che poteva essere una buona idea cucinare i bambini grassi irlandesi, con il duplice vantaggio di ridurre la sovrappopolazione e sfamare i poveri. Il senso della provocazione era che la barbarie sarebbe stata comunque minore del dominio inglese in Irlanda». 
Per questo pamphlet Swift è diventato un patriota irlandese... 
«Sì, ma non è cambiato nulla. La proposta non aveva alcun senso, ovviamente. E’ stato terapeutico per lui scrivere questa provocazione? Dovremmo chiederlo a lui, ma non credo. Ma per noi, per la tradizione della letteratura anglofona, Una modesta proposta è la pietra miliare della satira politica. Nessuno, neppure George Orwell di 1984 o della Fattoria degli Animali è mai riuscito a superare il senso di inutilità e di vuoto di questa satira». 
In periodi come questi, di paura, caos e incertezza – ora anche con il pericolo della pandemia – è un fiorire di distopie, fantascienza, satira. È un modo di rifugiarsi altrove e sfuggire la realtà? 
«Non penso sia una fuga, piuttosto un confronto. Siamo in un momento di grande confusione, la liberaldemocrazia è minacciata da una destra che sembra una forza potente in molti paesi, compreso il vostro. Erdogan, Salvini, Bolsonaro, Putin, Trump... a metterli tutti insieme si può fare una squadra di calcio. Vincente, al momento. C’è un sentimento di grande incertezza sul futuro. E aggiungiamoci i cambiamenti climatici. Credo che vedremo molta di questa incertezza, rabbia e disperazione riflessi in televisione, in letteratura e a teatro nei prossimi tempi. E non è una fuga. È la risposta necessaria, soprattutto per gli scrittori, di guardare al passato o anche al futuro o semplicemente al presente, per cercare di capire che cosa accade». 
E cosa trova uno scrittore?
«Può trovare speranza. Oppure la fine del progetto umano sul pianeta. Perché un’altra cosa che sta accadendo, quasi completamente ignorata, è la corsa agli armamenti nucleari che non è raccontata correttamente nelle news. Quindi abbiamo molto di cui preoccuparci, e anche molto di cui gioire. Per esempio che il tasso di alfabetizzazione nella storia dell’umanità non è mai stato così alto. Più ragazze sui banchi. Che il numero di poveri è il più basso di sempre, che alcune malattie sono state debellate, che la qualità di vita per tre quarti della popolazione mondiale non è mai stata così buona». 
In che misura lei pensa che la realtà debba entrare nei romanzi e che gli scrittori debbano raccontare la contemporaneità? 
«Credo che non possano proprio evitarla. Anche se è semplicemente la musica di sottofondo, quando scrivi, quella musica entra in quello che produci». 
Molti dei pericoli appena citati, tipo il nucleare, sono entrati di prepotenza in molte opere distopiche e di fantascienza. Perché del cambiamento climatico si parla meno? 
«Penso che il tema non sia stato affrontato direttamente, ma indirettamente. È pieno di racconti distopici ambientati in un futuro molto prossimo dove il pianeta è completamente devastato e la civiltà è distrutta e ci sono solo i sopravvissuti. Per esempio, La strada di Cormac McCarthy...».
Ma quello era un mondo devastato da una guerra nucleare. 
«Sì, ma è lo stato d’animo di cui parlo. È quello che viene dopo. È piuttosto difficile scrivere di cambiamenti climatici direttamente. Io ci ho provato con Solar, ma sono temi difficili. Perché non è solo una questione di scienza. Ha a che vedere con la natura dell’essere umano. Sappiamo che sta arrivando (anche se qualcuno lo nega). Sappiamo cosa dovremmo fare. Sappiamo anche come farlo. Abbiamo tutti gli strumenti per affrontarlo, ma lo stesso non facciamo niente. È un problema creato dall’intelligenza degli umani e che solo l’intelligenza umana può risolvere, ma non troviamo un accordo, perché siamo troppo competitivi. E infatti ogni vertice fallisce». 
Lei è molto interessato alle cose correlate alla scienza. 
«Sì. Come in Solar, si possono riflettere certi temi anche se racconti di un matrimonio che va in frantumi (nel caso quello di uno ex scienziato di grido chiamato dal governo per lavorare a un progetto sulle energie rinnovabili, ndr)». 
Oltre alla scienza, le piace anche la letteratura di fantascienza? 
«Si, ho sempre letto molta fantascienza. Sono stato un grande lettore di Asimov, quando ero adolescente. Stanislaw Lem (al suo Solaris si è ispirato per il titolo di Solar, ndr), John Whyndham. Quello che mi piaceva di tutti loro è che non erano su un’altra galassia, ma qui, sulla terra, e scrivevano di quale sarebbe stato l’impatto della tecnologia nel nostro futuro. E il mio interesse per l’intelligenza artificiale in Macchine come me viene da quelle letture. A cui va aggiunto Aldous Huxley di Un mondo nuovo e anche George Orwell di 1984. E questa tradizione è rimasta molto presente, anche in film come Blade Runner, Il mondo dei robot di Michael Crichton e via dicendo. Mi interessa il lato umano di questi racconti, non le lotte delle galassie, tipo in Guerre Stellari. L’impatto che la tecnologia può avere sulla società e sulla vita delle persone. Perché noi costruiamo il nostro futuro ma non lo possiamo controllare». 
Per esempio? 
«Mi viene in mente una cosa che sembra banalissima: Airbnb. All’inizio mi sembrò un’idea meravigliosa che i miei figli potessero viaggiare in tutto il mondo in stanze a basso costo. Poi è venuto fuori che Airbnb ha distrutto interi quartieri di Parigi o di Barcellona, perché i proprietari fanno più soldi affittando ai turisti e così i cittadini non trovano più case e si devono trasferire dai centri delle città. È nata come un’idea brillante ed è diventata un incubo. Mi interessano le conseguenze non volute delle innovazioni tecnologiche. Si può scrivere un romanzo (non di fantascienza) su Airbnb». 
Brexit sarebbe successa nello stesso modo, senza internet e i social media? 
«C’è una commissione di inchiesta che ha indagato sulle influenze russe nel referendum. Ma il governo non ha voluto rendere pubblico il rapporto della commissione prima delle elezioni. E adesso non interessa più a nessuno. Forse a qualche storico». 
Lei si sente europeo o inglese? 
«Io mi sento europeo. Mi hanno strappato la mia cittadinanza europea, ma la tengo stretta nel profondo del mio cuore. Perché comunque siamo europei. E non possiamo prescindere da Kafka, o da Camus, o da Calvino, Thomas Mann. Ma sono solo i primi che mi vengono in mente. Ce ne sarebbero così tanti, che non si possono nemmeno nominare tutti. E ora farò di tutto per avere un passaporto europeo. Molti hanno tirato fuori un antenato irlandese, per averlo. Io purtroppo non ce l’ho».
Perché tutti se la sono presa con l’Ue? 
«Non è stata Bruxelles a chiederci di trascurare le città postindustriali delle Midlands e del nord; non ci ha chiesto di far ristagnare i salari, o di autorizzare remunerazioni multimilionarie agli amministratori delegati di aziende in fallimento, o di preferire il valore degli azionisti rispetto al bene sociale, o di tagliare i fondi al nostro servizio sanitario e all’assistenza sociale o di chiudere 600 stazioni di polizia o di minare il tessuto delle nostre scuole statali».
Londra nel 2012, l’anno delle Olimpiadi, era il centro del mondo. A nessuno passava lontanamente per la testa di lasciare l’Ue. Lei ha capito cosa è successo, poi? 
«Se nel 2012 avessi chiesto a chiunque per la strada di elencare i problemi del nostro paese - e ne abbiamo molti, come tutte le nazioni, tipo servizio sanitario, salari, pensioni, alloggi – nessuno avrebbe messo nella lista l’Unione Europea. Ma in qualche modo la estrema destra del partito conservatore è riuscita a persuadere la gente ed eccoci qui». 
Lei parla di polverina magica gettata negli occhi del popolo dal populismo. 
«Sì. Proprietari di hedge fund, i plutocrati finanziatori della causa di Brexit, gli etoniani e i proprietari di giornali si sono dichiarati nemici dell’élite. Polvere magica. In verità abbiamo avuto una sorta di colpo di stato». 
In che senso? Ci sono state delle elezioni. C’è stato un referendum. 
«Nel senso che l’estrema destra del partito conservatore ha fatto fuori l’ala moderata e ha preso i pieni poteri e ora si ventilano cose estreme. Tipo di mettere il potere giudiziario sotto l’esecutivo, come Viktor Orban. O di smantellare la Bbc. E uno storico molto conosciuto come Andrew Roberts (conservatore, ndr) ha scritto sul Telegraph: adesso è venuto il momento di purgare la Bbc, l’università, le arti e tutti quelli di sinistra. Lui non ha potere, ma è un rispettato biografo di Napoleone e di Winston Churchill. In questo nuovo clima si possono scrivere stupidaggini del genere. Quando si iniziano a fare certi discorsi, è l’inizio del fascismo. Parlare di purghe è la Turchia di Erdogan, non l’Inghilterra». 
Non esageriamo, però. Boris Johnson non è un fascista. 
«No, infatti non ho mai detto che è un fascista. Molte persone pensano che questo sia solo un altro governo, come ce ne sono stati tanti altri prima. Ma questo rappresenta un cambio radicale, è qualcosa di completamente diverso. In Boris Johnson abbiamo scoperto un uomo profondamente volgare che vuole fare di questo Paese un paese di libero mercato selvaggio come gli Stati Uniti. Loro vorrebbero avere un Paese dove la gente sente alla televisione solo le cose che pensano. Ma ignorano il fatto che se vuoi essere ammirato nel mondo, devi avere istituzioni ammirate nel mondo. E la Bbc è una di queste».
E qui arriva "Lo scarafaggio". 
«Certo. La mia sensazione è che qualcosa di veramente schifoso come uno scarafaggio, sia entrato nel nostro dialogo politico, qualcosa che non c’era mai stato prima. Abbiamo sempre avuto degli estremisti, ma adesso stanno governando il paese. I matti hanno conquistato il manicomio». 
Ma alla fine della novella, lo scarafaggio torna nelle sue fogne. Cosa succederà quindi? 
«Non lo so. Riparliamone dopo il 31 dicembre 2020 e così glielo saprò dire. Cito il grande poeta W.H.Auden: "La poesia non fa accadere nulla". Io ho pubblicato il mio piccolo libello, niente è accaduto e non mi aspettavo che accadesse. Ma dobbiamo resistere, in qualche modo». 
Lei è uno scrittore super prolifico. Sta già lavorando a un nuovo libro?
«Ora per la verità sto lavorando a una lecture, non sto ancora scrivendo. Ho in mente un soggetto e ci sto pensando. Sono nella fase di ragionamento. Non sono certo a corto di soggetti su cui scrivere, con tutto quello che capita». 
Dobbiamo aspettarci qualcosa di cupo o di lieve? 
«Non so. Ci sto ragionando. Ma questo è un bel momento per essere un narratore di storie». 
Abbiamo finito. Convenevoli e altro. Ancora qualche commento sul vento, sulla pioggia, sulla linea che va e viene. Ci salutiamo. Sento dall’altra parte un lungo silenzio. Non ha attaccato, è ancora lì. Poi la sua voce interrompe il silenzio: «Le posso dire un’altra cosa?». 
Certo. «Sa cosa è che mi fa andare avanti in questo periodo? La famiglia e gli amici».