La Stampa, 9 maggio 2020
Intervista a Giorgio Armani
«Tutelare la salute delle persone è prioritario. Dobbiamo cogliere l’occasione di cambiare il sistema e ridare il giusto valore alle cose». Giorgio Armani è in tutto il mondo il simbolo del made in Italy e della cultura della bellezza. E ha ben chiara la scala di valori, nei giorni in cui la sua Milano pare dimenticare la prudenza e affollarsi sui Navigli, in una sorta di sbornia collettiva post Covid -19.
Lui è stato il primo, tra gli stilisti, a intuire la gravità della situazione, sfilando a porte chiuse per motivi di sicurezza l’ultimo giorno della kermesse dedicata al prêt-à-porter, a febbraio, quando era appena scoppiata la pandemia. Il primo a scrivere una lettera di ringraziamento agli operatori sanitari; il primo a fare donazioni e a riconvertire una parte della produzione per realizzare mascherine e camici. «La pandemia con il forzato arresto delle attività - dice -, ci ha costretto a fare i conti con un sistema che ha rivelato tutta la sua fragilità e le sue distorsioni. Questo è il momento di rallentare la folle corsa, di fare di meno e meglio, concentrandoci sul prodotto. In tutti i settori. Mi auguro che prevalgano l’intelligenza, il buon senso e il coraggio».
Lei sta rivoluzionando tante cose. La sua lettera ha girato il mondo e fatto riflettere molte persone. Da dove vuole partire per cambiare?
«È tempo di decisioni coraggiose. E a me piace far seguire i fatti alle parole. Perciò, dopo anni di sfilate a Parigi ho deciso di portare la mia alta moda a Milano. Il prossimo gennaio inviterò clienti e stampa nella sede storica della Giorgio Armani, a Palazzo Orsini, in via Borgonuovo. E da giugno metterò a disposizione su appuntamento i servizi della sartoria».
Ripartire da Milano, quindi?
«Sì, è una scelta coerente e pratica, nata dal desiderio di valorizzare il patrimonio del marchio, così come quello della città e del nostro Paese che sono strettamente legati. In questo, Milano potrà riavere un ruolo di prestigio internazionale. Spero che il mio esempio venga seguito anche da altri colleghi italiani che sfilano a Parigi. Sarebbe un’ottima occasione per fare squadra. Cosa in cui noi, finora, non siamo stati bravi a fare come i francesi».
Che ricaduta avrà questo virus sull’economia?
«Stiamo ancora combattendo una guerra globale e le conseguenze si faranno sentire a lungo. Ma non mi sono mai piaciuti i toni allarmistici, perché alimentano solo l’incertezza. La strada da percorrere è fatta di strategie comuni e prudenza. Bisogna rimboccarsi le maniche. E spero che vengano definite presto serie e congrue misure di sostegno per contenere l’impatto sull’economia e sulla società».
Nei consumi cosa succederà, ora che siamo entrati nella fase 2?
«Priorità e ritmi saranno diversi. Da molto sostengo, andando controcorrente, che dovremmo rallentare il passo. L’eccessivo, e direi falso bisogno degli ultimi anni di mostrare e produrre sempre di più, ha generato confusione e spreco. Basti pensare alla quantità di merce presente nei negozi. Nell’attesa di tornare alla normalità, possiamo riflettere sugli errori cercando di costruire un futuro migliore».
Il settore fashion, come quello degli spettacoli, ha risentito molto dell’emergenza. La gente, ora concentrata su bisogni primari, che rapporto avrà con la moda?
«Avrà un rapporto cauto. Dipenderà da noi individuare i nuovi atteggiamenti e soddisfarne i bisogni. Evitando gli eccessi, puntando sul design e sulla qualità di proposte adeguate, durature e funzionali».
Ma le persone avranno ancora voglia di comprare vestiti? E di che tipo?
«Penso proprio di sì, anche se le abitudini saranno a lungo differenti e quindi anche il modo di pensare all’abbigliamento. Più volte, in passato, ho sottolineato la necessità di concentrarsi sui vestiti che la gente realmente indossa. Il declino del sistema moda era già iniziato prima dell’epidemia, quando il settore del lusso ha adottato le modalità operative del fast fashion, aumentando le consegne nei negozi sperando di vendere di più. Ma il lusso richiede tempo per essere realizzato e per essere apprezzato».
Quale fascia di consumatori sarà più assetata di novità?
«Tutte le categorie. Anche se i giovani sono più ricettivi e vivaci in questo senso».
Le sfilate saranno ancora un mezzo valido per comunicare con il pubblico?
«Certamente, intese come momenti di autentico confronto saranno fondamentali. Ma devono essere reali banchi di prova, con calendari meno fitti. Ridimensionare questo aspetto sarebbe già il primo passo di un percorso che ridarà valore al nostro lavoro. È una bella sfida, ma gli stimoli, visti gli interessi in gioco, non mancano. Stiamo tutti riscrivendo il nostro presente. Del resto, se non ora, quando?».
Lei a settembre presenterà il prêt-à-porter uomo e donna insieme, anche se non ha ancora definito le modalità. Quanto può funzionare il digitale?
«Trasmettere una sfilata in streaming in certi casi è un’ottima soluzione. Ma l’alta moda, in quanto massima espressione della creatività, non può essere sacrificata in video. Perderebbe il suo fascino, la bellezza e il valore intrinseco. Lo show fa parte del sogno delle clienti, per questo è insostituibile».
Trova che il lockdown abbia favorito un momento di riflessione in cui sono riemersi i veri valori?
«Direi proprio di sì. E non penso soltanto ai valori legati alla dimensione familiare, ma anche a quelli più nobili, come il coraggio, la solidarietà e lo spirito di sacrificio. L’Italia da questo punto di vista ha saputo mostrare - e lo dico con orgoglio - il suo volto migliore».