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 2020  maggio 09 Sabato calendario

Intervista all’architetto Rem Koolhaa

Ha iniziato a occuparsi di città con Delirious New York, il libro del 1978, subito un cult, in cui osservava la folgorante densità di Manhattan, e da allora l’architetto olandese Rem Koolhaas (Rotterdam, 1944) ha dedicato la vita intera al contesto urbano. Dal masterpalan dell’area metropolitana di Lille all’inizio dei Novanta, alla gigantesca torre del China Central Television (CCTV) a Pechino, alle infrastrutture come porti, aeroporti, stazioni che costellano skyline ad ogni latitudine terrestre, e ai musei e biblioteche come la Fondazione Prada di Milano o la Qatar National Library a Doha.

Ma ora Rem Koolhaas parla di un futuro in campagna. Secondo l’architetto, la campagna, ovvero il countryside, è il manifesto di una nuova era, nonché il contesto più probabile per uno sviluppo sostenibile del pianeta e la sopravvivenza delle città stesse.
Certo la sua idea di campagna è complessa: parla di territori, tecnologie, innovazioni, e trasformazioni che conosciamo solo in parte. Racconta un pianeta interconnesso: dallo scioglimento del permafrost in Siberia, ai laboratori di intelligenza artificiale nella campagna di Fukushima in Giappone, ai gorilla di montagna "adattati" dell’Uganda, all’agricoltura rigenerativa del Midwest americano, all’allevamento di mucche in Qatar. In Countryside, The Future, la mostra aperta al Guggenheim Museum di New York, poco prima del lockdown, e nel libro ( Countryside, Report, Taschen), l’architetto esplora un countryside sterminato dove, al contrario che nelle città, si stanno verificando le metamorfosi più radicali. E mentre la mostra è chiusa, (ma il Guggenheim ha deciso di prorogarla fino a fine anno), in una New York densa e deserta, flagellata, come il resto del mondo dalla pandemia di Covid 19, abbiamo raggiunto Koolhaas via telefono nella sua casa di Amsterdam.
Koolhaas, andremo tutti a vivere in campagna ?
«No, le città saranno sempre molto importanti, essenziali, ma il futuro dipende sempre più da come sapremo lavorare nel countryside ».
Che cosa intende esattamente quando parla di countryside ?
«Il 98% della superficie terrestre non è occupata dalle città. Uno spazio immenso fatto di enormi diversità: dai territori remoti, selvaggi, ai deserti, alle terre protette per la conservazione della natura, ai terreni dedicati all’agricoltura, a fattorie robotizzate, alle centrali dell’e-commerce, ai data storage, all’ingegneria genetica, l’intelligenza artificiale, fenomeni migratori, e molto altro. Si tratta di una campagna dove oggi si lavora alla produzione, smistamento, organizzazione della vita nelle città, senza che ce ne sia piena coscienza.
L’obiettivo della mia mostra è spostare l’attenzione dalla città alla campagna, perché è qui che ci sono le potenzialità per uno sviluppo sostenibile, persino delle città.
Negli ultimi decenni si è studiato, invece, quasi solo la città, e le previsioni sull’urbanizzazione delle Nazioni Unite lo confermano».
A cosa si riferisce ?
«Secondo gli ultimi aggiornamenti del World Urbanization Prospects delle Nazioni nel 2050 il 68 per cento della popolazione mondiale
vivrà nelle città. È una prospettiva insostenibile, Countryside, The Future è in aperta polemica con questa visione. L’urbanizzazione non può essere l’unico modello di sviluppo, e questa previsione rischia di essere un alibi per continuare a sostenerlo».
Qual è il modello di sviluppo che propone?
«Al momento, gli scienziati prospettano due teorie: Half Earth e
Shared Planet. La prima si basa sulla separazione netta fra una natura quasi incontaminata e lo spazio abitato dagli esseri umani che include città e coltivazioni. La seconda invece implicherebbe una maggiore integrazione fra le due sfere. In ogni caso ognuna di queste teorie deve mettere in campo cambi radicali nella produzione a tutti i livelli dall’industria all’agricoltura e richiede un deciso intervento di politica e tecnologia».
Che effetti avrebbe sul global warming il ritorno alla campagna?
«C’è una parte importante della mostra con mappature, studi e diagrammi che mette in evidenza come il global warming potrebbe essere affrontato lasciando metà del pianeta allo stato naturale, sviluppando solo l’altra metà. Certo con interventi più efficaci e radicali di quelli attuali: utilizzando al meglio la tecnologia e minimizzando le emissioni di Co2».
Quale sarebbe l’impatto di una
rivalutazione del countryside sulla qualità della vita quotidiana?
«Fin dall’antichità, dalla Cina all’Impero Romano, c’è sempre stata una visione idealistica della campagna come luogo di ispirazione poetica, ozio, evasione.
Ma, nel momento in cui la campagna è il territorio complesso che abbiamo detto, la scelta di viverci diventa un’opportunità professionale e di qualità della vita.
Oggi le giovani generazioni l’hanno capito. In Italia, ad esempio, c’è grande interesse per il riutilizzo di territori rurali e borghi antichi abbandonati».
Che rapporto c’è fra campagna e globalizzazione?
«Fino ad ora abbiamo considerato la globalizzazione nelle città, ma gli effetti sono tangibili ovunque fino ai luoghi più remoti e insospettabili, come minuscoli paesini di montagna ripopolati da nuove migrazioni. Come dicevo, è tutto connesso e non si può continuare a considerare la campagna solo una zona di servizio per la città».
Pensa che il countryside possa essere una risposta a una situazione tragica come quella della pandemia di Covid 19?
«Non vorrei sfruttare questa situazione di crisi per promuovere il mio lavoro, vorrei tenere questi temi separati. Sembrerebbe opportunista».