Robinson, 9 maggio 2020
Su “Fine” di Karl Ove Knausgaard
«Sembra proprio la zia Elisabeth». Edith Wharton si arrabbiava – pur mantenendo il garbo da signora upper class newyorchese – quando le facevano notare che un suo personaggio romanzesco somigliava ai parenti o ai conoscenti. Era convinta che gli individui “presi dalla vita” risultassero pallidi e smorti. Poco avvincenti rispetto ai personaggi costruiti dal bravo romanziere che taglia l’inutile, aggiunge dettagli, calcola gli effetti e governa gli equilibri. Poi è arrivata l’autofiction.
Nel 2008, dopo due romanzi di successo in patria, il quarantenne Karl Ove Knausgaard decise di raccontare «la realtà non avvolta dal sudario della letteratura». Parole sue, prese dal libro che chiude la titanica impresa, con il titolo Fine: 1250 pagine, in tutto son più di 3500. Una smisurata autobiografia, per chi legge. Lo scrittore preferirebbe la definizione di «opera d’arte totale», o qualcosa di simile.
Le cinque massicce puntate precedenti sono La morte del padre, Un uomo innamorato, L’isola dell’infanzia, Ballando al buio, La pioggia deve cadere ( tutte Feltrinelli, tradotte da Margherita Podestà Heir). La mia battaglia è il titolo- ombrello, come la versione norvegese del Mein Kampf di Adolf Hitler. Knausgård ha voluto così, e nel capitolo conclusivo Fine quasi 500 pagine raccontano la giovinezza e l’apprendistato del dittatore, la repubblica di Weimar, le disuguaglianze sociali. Da qualsiasi parte lo si prenda, con la più ampia definizione possibile, è difficile considerarlo un romanzo.
Colpa di una spilla nazista e del Mein Kampf trovati tra gli oggetti del padre defunto. L’obbligo alla sincerità scatena la prima delle numerose polemiche che accompagnano lo scavo autobiografico. Karl Ove Knausgaard voleva raccontare la battaglia combattuta per diventare se stesso, liberandosi dall’ingombrante genitore. Una resa dei conti cominciata con la morte del padre ( è la materia del primo volume) in una casa lercia e stipata di bottiglie. «Ci vollero giorni per pulirla», scrive. Racconta senza pudore, e senza cambiare i nomi. Per scrupolo, fa leggere agli interessati il manoscritto pronto per la pubblicazione. Lo zio Gunnar si infuria, denuncia, minaccia, accusa lo scrittore di essersi inventato tutto, con la complicità della madre. I toni, già alti, rischiano di degenerare in una guerra tra la gente comune e l’élite che scrive.
La vicenda occupa la prima parte di Fine (le pagine si contano sempre a centinaia). Nei suoi dettagli di cronaca e di poetica. Non è solo questione di cambiare qualche nome, per proteggere gli innocenti e chi passava di lì. Lo zio Gunnar accusa Karl Ove di menzogne, e sostiene di poterlo provare. Il progetto «dirò la pura verità» (una variazione sul «cuore messo a nudo» di Charles Baudelaire) viene sbugiardato. Azzoppando l’idea di letteratura che guidava il progetto. L’unica, secondo Knausgaard, «eccelsa e ineguagliabile», perché strettamente personale.
«Potevo misurarmi con Jonathan Franzen ma non con Thomas Bernhard», scrive. Ma non gli basta. Quindi procede, a dieci pagine al giorno, cinquanta alla settimana, alzandosi alle quattro del mattino. Medita perfino di pubblicare il romanzo a puntate mensili: «come Dickens o Dostoevskij», commenta il fiero scrittore. Poi non se ne fa nulla ( un po’ deve aver contribuito la mancanza di trama).
Negli intervalli, Fine racconta la vita dello scrittore che ha famiglia e bambini da accudire. Colazioni preparate, pannolini cambiati, latte fermentato al mirtillo, carote grattugiate. Con minuzia sproporzionata rispetto al trattato storico- psicologico su Adolf Hitler che attende il lettore nella parte centrale ( assieme a una lettura commentata di Paul Celan e a un catalogo di prestigiosi riferimenti: William Faulkner, James Joyce, Karl Marx, Jack London). Senza ritrovare la forza e la necessità del romanzo iniziale, appunto La morte del padre: là i dettagli erano da brivido, li volevamo sapere tutti, e la voce era originale. Qui, all’ennesimo lavaggio dei denti il lettore un po’ si spazientisce. Tutto atrocemente vero, realistico, anti- letterario. Ma il paragone che è stato fatto con la Recherche e con Marcel Proust davvero sfugge.
Mentre sbriga le questioni metaletterarie – pareri legali, strategie editoriali, interviste scandalistiche – Karl Ove Knausgaard ha già scritto il secondo volume, Un uomo innamorato.
Deve far leggere il manoscritto a Linda, la madre dei suoi tre figli ( per lei aveva lasciato la prima consorte) e non riesce a immaginare come la prenderà – ormai ha intuito che le persone quasi mai si riconoscono, nel ritratto dal vero. Siamo all’ultima parte di Fine, quando chi legge ormai si è convinto che la letteratura – se non altro – tiene lontani i pettegolezzi. E lo scrittore dovrebbe essere il primo a sapere che ognuno racconta il mondo a modo suo.
«Era difficile far sì che quel che avevo scritto si muovesse», scrive Karl Ove Knausgaard parlando degli ostacoli incontrati nel mestiere. Perfetta descrizione di quel che accade nel volume medesimo: Fine non si muove. Solo poche pagine – troppo poche rispetto al totale – hanno l’energia e la forza d’attrazione che incantavano il lettore nei volumi precedenti. Piace di più ai lettori- scrittori, che ne ammirano l’atletica audacia. Tra le fan, Rachel Cusk e Zadie Smith.