«Le posso dire quello che vedo dalla finestra dello studio di casa mia, dal quale non esco quasi mai, se non per brevissime passeggiate. Sono a Manhattan — fino a ieri il centro pulsante del mondo — e c’è molto silenzio; non ci sono pullman, né auto, né taxi. Pochissime persone mascherate, che portano un cane, ragazzi che fanno le consegne in bicicletta e gli homeless sui marciapiedi: aumentano ogni giorno. È stupefacente. Le persone che vedo mi sembrano tutte spaventate, credo che tutti pensino alla morte. Io mi sento fortunato perché ho un posto in cui posso sopravvivere…».
Mr. Rushdie il suo libro è uscito a settembre e termina con una fine del mondo: un po’ diversa, ma in fondo simile. New York sprofonda, la morte è per le strade e i due protagonisti cercano di fuggire, in auto, verso la California e un misterioso "portale Mayflower" che, forse, li porterà in un nuovo mondo nello spazio. È spaventato dall’aver previsto la realtà?
«Beh, un po’ turbato. Ma devo dire che, per diverse ragioni, quando ho cominciato a pensare al romanzo, effettivamente pensavo che il Mondo — non il mondo come entità astratta, ma il mondo che mi era stato famigliare per tutta la vita — una storia fatta di India, di Inghilterra e di America — era cambiato un po’ troppo, e troppo in peggio; e stava arrivando alla fine. Nessuno però avrebbe neanche remotamente immaginato quello che è successo, la sua velocità… In qualche modo io sono sollevato dal fatto di aver pubblicato prima».
Se questa conversazione vi sembra un po’ strampalata, è tempo di fare le presentazioni. Mr. Rushdie è Salman Rushdie, quasi 73 anni, uno degli scrittori in lingua inglese più famosi e più premiati. Nato a Bombay, in una antica famiglia musulmana intellettuale (il cognome Rushdie è un omaggio al filosofo medievale Ahmad Ibn Rushd, conosciuto da noi come Averroè), ha studiato al King’s College di Cambridge. Dopo il folgorante successo di Midnight Children, romanzo di forte attualità storica e di magiche fantasie sulla tragica "partition" del 1948 tra India e Pakistan, Rushdie acquista fama internazionale di romanziere storicamente possente e irriverente. Il suo quarto romanzo I versi satanici, una satira sulla inconsistenza degli insegnamenti del profeta Maometto, non viene per nulla gradito dall’ayatollah Khomeini che nel 1988 emette la famosa "fatwa" con cui condanna a morte lo scrittore e chiede ai fedeli di ucciderlo. Rushdie è costretto a vivere blindato, trova rifugio in Inghilterra dove la Regina lo nomina baronetto; nel 2000 si trasferisce a New York, dove gradualmente la sorveglianza imposta viene allentata e lo scrittore può partecipare alla vita mondana della metropoli e insegnare letteratura comparata alla Columbia University. Se si ripensa oggi alla sua vicenda, Salman Rushdie appare come il "paziente zero" di una spaventosa epidemia che ha colpito la libertà intellettuale; una strage mai finita e che solo cinque anni fa ha visto la morte dei giornalisti e disegnatori di Charlie Hebdo. Come è cambiata la sua scrittura? Direi che è stata più forte del virus. La capacità di Rushdie di costruire storie («un romanzo è una macchina veloce, l’autore sta al volante, ma non può nulla se sotto non ha un motore possente, e quel motore è la Storia; me lo ha insegnato Charles Dickens») lo ha portato tra le grandi migrazioni delle ex colonie dell’impero britannico, alla scoperta del nuovo mondo americano. Quichotte, il suo quattordicesimo romanzo (in Italia il 12 maggio) è una summa di tutto ciò. Ma questa volta, con la fine del mondo.
L’idea, dice Rushdie, gli venne quando fu incaricato di scrivere un saggio per le celebrazioni del quattrocentesimo anniversario della morte dei due padri della letteratura moderna, William Shakespeare e Miguel de Cervantes, ambedue morti il 23 aprile del 2016. E l’idea era di riscrivere il Chisciotte e di ambientarlo nell’America di oggi. Il nome, alla francese, nasce dal titolo dell’opera lirica in cinque atti Don Quichotte del compositore Jules Massenet, che lo presentò a Parigi nel 1910; ma il cavaliere della Mancia ha ispirato non poco tutto il Novecento. Tragico idealista secondo Unamuno e Picasso; il pazzo che entra a cavallo in una sala cinematografica dove si proietta un film di guerra, secondo l’utopia filmica di Orson Welles; il monsignore che converte il sindaco comunista di un piccolo paese secondo Graham Greene. Borges invece immaginerà uno scrittore che lo vuole riscrivere, uguale, ma più ambiguo. Terry Gillian lo farà uccidere…
Qual è il Don Chisciotte di Rushdie?
«Cervantes, fin dalle prime righe, ci dice che Don Chisciotte era pazzo. Scambiava il mondo reale con la fantasia, i romanzi cavallereschi di cui era lettore, con le Bellissime Castellane da salvare, i codici cavallereschi, i filtri d’amore, i malefici, i mulini a vento che si trasformano in giganti. Tutti cercano di farlo rinsavire, ma lui non demorde, attacca; fa ridere; nelle prime cinquanta pagine lui e Sancho non fanno altro che collezionare botte e finire nei fossati. Solo alla fine del romanzo, con la sua morte, si scoprirà che l’unico saggio era lui, e che tutti gli altri erano pazzi. Il mio Quichotte, invece dei romanzi cavallereschi, è intossicato dalla televisione, dai reality, dai talk show. Come il signore della Mancia, ha una missione: salvare il suo amore, la sua Dulcinea, una famosa conduttrice di talk show, e con lei salvare il mondo. E lo fa attraverso un classico della letteratura americana, il road trip, non sul suo Ronzinante, ma su una vecchia Chevy Cruz».
Ecco l’incipit: «Viveva una volta, negli Stati Uniti d’America, presso una serie di indirizzi temporanei, un uomo itinerante originario dell’India, di età avanzata e dalle facoltà intellettive in declino, che a causa della sua passione per i programmi televisivi più insulsi aveva trascorso troppo tempo davanti allo schermo nella luce gialla di squallide stanze di motel fino a riportare, per questo, danni cerebrali di un tipo molto particolare».
Quichotte si chiama Ismail Smile e vive in un’epoca chiamata DG, Dopo Google, «in cui a comandare è la plebe, e la plebe è governata dallo smartphone»; di mestiere fa il commesso viaggiatore per una potentissima industria farmaceutica di cui è proprietario suo cugino, Mr. Smile, che ha fatto miliardi distribuendo analgesici a base di oppiodi. È anche lui indiano e l’idea di usare il servizio sanitario per spacciare droga gli era venuta vedendo uno scugnizzo di Bombay che distribuiva biglietti da visita su cui era scritto: «Sei alcolista? Noi possiamo aiutarti. Telefona a questo numero: consegniamo alcolici a domicilio».
Quichotte si è convinto che deve raggiungere la popolarissima star televisiva Salma R (toh, che nome!). La loro unione coinciderà con la fine del mondo, dopodiché inizierà il Nirvana senza tempo. Ci riuscirà? Quichotte pensa di sì, perché «viviamo in un’epoca in cui tutto può succedere». Inizia il viaggio: picaresco, satirico, su cui si affacciano le più note personalità della cultura pop americana, in compagnia di un figlio immaginario che si chiama Sancho, ma assomiglia a Pinocchio (con tanto di Grillo Parlante, il Jiminy Cricket di Walt Disney, che però gli parla in italiano — «attento, paisano…»), dorme in motel che hanno solo canali porno, «uno più noioso dell’altro», affronta gruppi nazisti che portano collari borchiati come i cani feroci, arriva nel New Jersey dove gli uomini si sono trasformati in animali preistorici, "il Mastodon Americanus" e simboleggiano «tutti i nemici della realtà odierna: gli anti vax, i negatori del cambiamento climatico, gli ufologi, il presidente»; partecipa a un tentativo di fermare la loro avanzata verso New York, facendo barriera armata sul Lincoln Tunnel. Sancho, intanto, scopre di essere discendente da uno schiavo e nota con orrore che nei negozi di Madison Avenue si vendono costumi del Ku Klux Klan, mentre la città è in preda a un’epidemia che rende gli americani ciechi: «Come proclamavano le autorità preposte e i quotidiani più rispettati — stava assumendo i contorni di una pandemia o addirittura, per usare un termine amato dagli scrittori, di una pestilenza. Le pestilenze avevano origini misteriose, mietevano vittime a caso ed erano incontrollabili. Provocavano panico nelle strade, e nelle grandi città spesso richiedevano lo scavo di fosse comuni».
Mr. Rushdie, Ismail Smile è nato a Bombay, Salma R.
ha un nome che ricorda qualcosa ed è stata un’attrice di Bollywood… la storia racconta di un uomo dalla pelle bruna che cerca una donna dalla pelle bruna, in America… Anche lei è nato a Bombay. È lei Quichotte?
«Sì, naturalmente. Come Cervantes si rifletteva nel suo personaggio. Cervantes aveva avuto una vita difficile, straniero in patria, soldato, prigioniero, fatto schiavo, alle prese con la giustizia, molto critico verso la gloriosa Spagna dei suoi tempi. Questo mio libro ha a che fare con l’America, che è il paese dove vivo da vent’anni. Ed è un po’ il punto di vista dell’immigrato. L’America è il luogo della seconda vita, del nuovo inizio: tutta la sua letteratura è un testamento di questa speranza, è tutta una storia di immigrati e rifugiati. La gente viene qui per reinventarsi: pensi al Grande Gatsby. Ebbene, purtroppo questa utopia sta finendo. Certo, la Signora è ancora lì, al porto, con la sua fiaccola e invita le moltitudini a venire, ma è aumentato il razzismo, è aumentato l’antisemitismo, il posto è diventato più buio, c’è gente che si trasforma, che diventa mostruosa. C’erano i segnali, eccome. C’era stata la catastrofe della Brexit, c’era stata l’ascesa di Trump… E guardi quello che succede in India.
Questa non è più l’India,
era il titolo di un settimanale, una settimana fa. Io ho molto forte la sensazione che il mio mondo stia finendo, si stia fermando. Il mio protagonista, invece, è assurdamente ottimista e crede ancora nell’amore…».
Perché è successo tutto questo all’America?
«Lunga storia, credo che c’entri molto la paura della razza bianca. Lo shock di aver avuto un presidente nero, il terrore di diventare minoranza, di non poter più comandare. La voglia di trovare qualcuno a cui dare la colpa per quello che è successo… Ma io credo che alla fine vinceranno gli immigrati, Trump è solo la faccia oscura dell’America, il paese è più ricco e più complicato; se vai in giro come fa il mio Quichotte, anche nei red states, trovi gente per bene, gente calda».
Il suo romanzo si svolge tutto intorno a un’epidemia misteriosa, che però ha radici reali, si tratta della strage che sta avvenendo, in silenzio, da anni per overdose di farmaci a base d’oppio. Perché l’ha scelta come metafora?
«Per una tragedia personale. Pochi anni fa, la mia sorella più giovane è morta per un’overdose di farmaci a base d’oppio; non qui: a Karachi, Pakistan. Nessuno nella nostra famiglia sapeva che avesse sviluppato quella dipendenza, l’aveva tenuta segreta: è stato uno shock per tutti noi. Dalla sua morte ho cominciato a interessarmi di questa tragedia nascosta. Pochi lo sanno, ma in America dalle 60 mila alle 75 mila persone muoiono ogni anno per overdose di Fentanyl o OxyContin, e ci sono società farmaceutiche che hanno lucrato miliardi su questo affare. Sono stato io stesso, scrivendo il libro, in città, contee, stati — spesso stati conservatori — in cui avveniva, e sta ancora avvenendo, questa strage silenziosa. Per cui quello che è narrato nel romanzo è realistico. Voglio dire, per citare il mio modello, è dickensiano».
Però la realtà ha superato la fantasia. La sua eroina rischia di morire di un’overdose di un potentissimo spray sublinguale a base di Fentanyl. Si salverà perché nel kit era compresa un’altra dose di spray, Narcan, l’antidoto. E poi succede che, nell’epidemia reale, il presidente degli Stati Uniti consigli ai concittadini di uccidere il virus bevendo un po’ di conegrina. Che effetto le ha fatto?
(
Ride)
«E in diretta nazionale televisiva! E c’è pure gente che l’ha messo in pratica! Oh, come vorrei che Novembre (le elezioni,
ndr)
fosse domani! E invece no. Tutti adesso dicono: questa volta ha esagerato, ma purtroppo non è così. Si dimenticano, e Novembre è lontano, questa è davvero un’epoca in cui tutto può succedere. E lo dico con apprensione».
Ora che l’epidemia c’è davvero, cambierebbe il finale del Quichotte?
«No, non sono stato tentato. Oggi a me, come a tutti gli scrittori, i giornali e le televisioni chiedono commenti, previsioni, premonizioni; ma io non saprei cosa dire. Non è il momento degli scrittori, è il momento dei giornalisti: raccontare quello che succede. O dei poeti. E io purtroppo non sono un poeta».
Sta scrivendo adesso?
«Stavo scrivendo qualcosa, ma ho smesso. Anzi, l’ho buttato via. Però ho degli amici pittori che mi dicono che hanno ispirazione per dipingere».
Come finirà l’epidemia? Noi italiani studiamo a scuola "I promessi sposi", dove c’è la peste a Milano, e anche la sua fine. Una pioggia lava tutto, mandata dalla Divina Provvidenza.
«Voi italiani siete davvero fortunati, I promessi sposi è un libro magnifico. Io purtroppo però non credo nelle Divine Provvidenze e quindi non penso che ci sarà una pioggia magica: troppo semplice. Il finale dei libri è sempre difficile. Camus se la cavò meglio. Dice solo che la peste, poi, finì. Sei mesi fa, quando andavo a presentare il libro, tutti mi chiedevano del finale. Quichotte e Salma si salveranno, ci sarà per loro una nuova America? Metà dei lettori pensava di sì, metà di no, e quindi chiedevano a
me».
E lei cosa rispondeva?
«Non rispondevo».
Però, Mr. Rushdie, nel suo libro lei ha messo molti indizi per dire come andrà a finire. Sia Quichotte, che Salma, che Sancho fanno riferimento a un brevissimo e dimenticato racconto di fantascienza, degli anni Cinquanta, che si chiamava "I nove miliardi di nomi di Dio". La storia è ingenua e assurda. Alcuni monaci tibetani credono che quando avranno catalogato i nove miliardi di nomi di Dio, il mondo cesserà di esistere, ma sanno che per completare l’opera ci metteranno secoli.
Allora vanno a New York e ingaggiano due ingegneri che facciano funzionare un supercomputer per sveltire le operazioni. I due vanno nel monastero, mettono in funzione la macchina. Avvertono i monaci che il lavoro sta per finire e se la svignano. Li aspetta un aereo che li ripoterà nella civiltà, scendono nell’immenso anfiteatro dell’Himalaya, viene notte, ridacchiano pensando a come ci resteranno male i monaci quando scopriranno che il mondo non finirà. Poi uno fa all’altro: "Guarda…". E il finale: "Lassù, senza tanto chiasso, le stelle si stavano spegnendo".
«Sì, è un racconto di fantascienza che avevo letto da ragazzo, mi aveva molto colpito. La fantascienza è stata molto importante per me».
Già, ma c’è un problema. Nel romanzo Sancho sa che il suo compagno è a conoscenza che il mondo sta per finire. «L’ha letto in un racconto di fantascienza e ha deciso che questa era la spiegazione della sua missione. Quando lui avrà conquistato l’Amata, l’universo avrà raggiunto il suo scopo e arriverà al suo termine».
«Sì, Quichotte pensa così…».
Però, Mr. Rushdie, Sancho dice a Quichotte: «Il mondo non ha altro scopo che la conclusione del tuo libro. Quando l’avrai finito, le stelle cominceranno a spegnersi».
Bip, bip, bip. La comunicazione whatsapp è saltata. Ogni tanto succede.