la Repubblica, 9 maggio 2020
Il rapimento di Elio Germano
Anche Elio Germano, attore, fa parte del club dei no-social, non così piccolo. Anche lui (vedi intervista di Arianna Finos su Repubblica di ieri) patisce l’esistenza di falsi Elio Germano che parlano a suo nome sui social. E anche a lui (come a me, come a tanti) è stato detto che l’unico modo per rimediare è entrare nei social e ingaggiare un combattimento con i propri falsi, dando così vita al surreale duello, mai visto sotto il cielo, “io sono io, tu non sei me”. L’ho già scritto decine di volte e mi scuso per la ripetizione, ma questo è uno scandalo. Esiste un luogo – i social – nel quale chiunque può rubare l’identità di un altro. Spetta poi al derubato, incredibilmente, dimostrare di essere se stesso; è al derubato, se reclama, se protesta, che viene chiesta quella prova di identità che NON è stata chiesta, in precedenza, a chi gli ha rubato il nome e la faccia. Ripeto, perché si capisca l’entità della refurtiva: il nome e la faccia. L’identità. La persona. L’essere umano. Si tratta di un rapimento.
Beh, sui social il rapito deve dimostrare di esserlo. È un perfetto capovolgimento del rapporto tra vittima e colpevole. Con un’aggravante. L’aggravante è che l’identità che viene rapita non è un’identità social, non è un’identità nata e cresciuta nel meta-mondo di Facebook o Twitter, è un’identità prelevata pari pari dal mondo fatto di carne e di fatica, il mondo delle arti, della scrittura, della politica, del pensiero, il mondo del lavoro, il mondo “vero”, insomma. L’assioma secondo il quale i social sono essi stessi “realtà” ne esce parecchio compromesso. Vivono grazie a lei, ma non sono lei. Sono, della realtà, i parassiti, gli imitatori, i sosia.