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 2020  maggio 09 Sabato calendario

Storia della tentata truffa alla Rai di Foa

C’è una storia cominciata al settimo piano della sede Rai di viale Mazzini, gli uffici del Presidente Marcello Foa, sepolta in fretta e furia dai pochi che, in segreto, l’hanno maneggiata (i componenti di centro-destra della commissione parlamentare di vigilanza). E che, tuttavia, nell’assoluto silenzio, molto ha camminato. Fino ad arrivare in Israele, rimbalzando tra Milano, Ginevra, e una banca cinese in quel di Hong Kong. È la storia di una "stangata" da 1 milione di euro tentata esattamente un anno fa. Al cui amo il Presidente della Rai aveva abboccato e sventata dall’amministratore delegato Fabrizio Salini. Che qualcosa racconta della diarchia al vertice del servizio pubblico, dell’incedere del suo Presidente, e in cui si è mossa una articolata e sofisticata organizzazione criminale che ha bucato 27 grandi aziende italiane (tra colpi andati a segno e altri abortiti), sottraendogli con l’inganno oltre 10 milioni di euro. E su cui, a fari spenti, e con eccellenti risultati investigativi, lavorano da oltre un anno la Procura di Milano e l’Arma dei carabinieri. Ventisette stangate, un identico format. "Truffa del Ceo", la chiama chi indaga. Dove "Ceo", sta per Chief Executive Officer, la figura apicale di ogni azienda. Considerato per questo l’anello più solido della catena di comando di una governance. Ma, a ben vedere, talvolta il più debole. Perché cosa c’è di più fragile di un "Ceo" consapevole di essere stato truffato per dabbenaggine o superficialità? «Di fronte all’alternativa tra il confessarsi vittima di una truffa, compromettendo la propria reputazione e quella dell’azienda, e quella di mettere tutto a tacere, spesso i Ceo scelgono la seconda opzione», osserva un inquirente. Né più e ne meno che l’alternativa del diavolo cui Marcello Foa si trovò la mattina del 29 aprile del 2019. Un lunedì. E di cui ancora oggi preferisce non parlare. «Fin dall’inizio di questa storia in cui sono parte lesa e che io stesso ho denunciato alle autorità competenti – dice Foa, raggiunto telefonicamente – mi sono imposto di non rilasciare dichiarazioni per non interferire nell’attività della magistratura».



Pagare 1 milione
Quel 29 aprile, sulla casella di posta elettronica del Presidente della Rai arriva una email il cui mittente – giovannitria@mef.gov – suggerisce al destinatario la massima cura. Giovanni Tria, allora ministro dell’Economia di un governo a trazione giallo- verde – quello che ha voluto Foa alla Presidenza dando corso all’ukaze sovranista di Matteo Salvini - sollecita con tono informale, ma deciso, che la Rai liquidi il compenso pattuito in un contratto internazionale con delle società cinesi. La somma non è di poco conto. Un milione di euro. Anche se generiche sono le indicazioni di Tria sulle modalità di conclusione dell’operazione. La mail avvisa infatti Foa che le istruzioni di dettaglio arriveranno da un avvocato d’affari con studi a Milano e Ginevra, indicato con il nome di Francesco Portolano.
Curioso, verrebbe da dire. Una mail del ministro dell’Economia. Un’operazione da 1 milione di euro. E una firma, in quella mail – semplicemente "Giovanni" - che comunica a Foa un’intimità che forse lui non ha con l’inquilino di viale XX Settembre, ma che evidentemente deve lusingarlo. Del resto, ogni dubbio sembra dissolversi quando, sempre quella mattina, l’avvocato Portolano raggiunge telefonicamente Foa per spiegargli come e attraverso quali canali l’operazione di pagamento andrà finalizzata. Foa non ricorda se la telefonata arrivi sul suo smartphone personale o su quello aziendale. Ricorda per certo che, il giorno successivo, martedì 30 aprile, risponde al ministro Tria annunciandogli che provvederà ad evadere la sua richiesta. Non personalmente, ma attraverso gli uffici dell’amministratore delegato Fabrizio Salini. Che infatti incontra quel giorno. Poche ore prima di lasciare Roma, dove rientrerà solo il 6 maggio, dopo alcuni giorni di vacanza.


Una richiesta senza risposta
Quel 30 aprile, nell’incontrarlo, Salini mostra una perplessità che, al contrario, sosterrà di non vedere in Foa, deciso a dare corso alla richiesta della mail ricevuta dal ministro. Del milione dovuto a società cinesi Salini non ha infatti mai sentito parlare. E, soprattutto, lo incuriosisce la singolare modalità con cui l’operazione viene sollecitata. Chiede inutilmente al Presidente di avere copia della mail che ha ricevuto da Tria, senza ottenerla. Poi, qualche ora dopo, sulla sua casella di posta, ecco apparirne due di mail, da due diversi indirizzi a lui sconosciuti, e di contenuto identico a quella ricevuta da Foa: l’indicazione dell’avvocato d’affari quale mediatore, i cinesi, il contratto internazionale. Salini torna dunque a sollecitare Foa, che pure continua ad apparirgli tranquillo. Gli chiede se avesse avuto prima di allora rapporti con quell’avvocato Portolano, ottenendone un rotondo "no". E, nondimeno, lo convince a telefonargli di fronte a lui. È una comunicazione che, nei ricordi di Salini, dura pochissimo. Foa chiede spiegazioni, ma non ottiene dal professionista altro che una frettolosa conclusione della conversazione.
Foa si congeda da Salini e lascia Roma per qualche giorno di vacanza.
Salini viene a capo della gabola in ventiquattro ore.
Fa quello che Foa non ha fatto. Telefona a Tria. Per scoprire che non esiste alcuna mail inviata dal suo account o da account del suo ministero al Presidente o all’amministratore delegato della Rai e che il ministro nulla sa né di cinesi, né di contratti garantiti dalla mediazione di un asserito avvocato Portolano. È un falso, insomma. Tutta la storia sta in piedi come un sacco vuoto. Il 2 maggio, primo giorno utile dopo la festa del lavoro, l’Amministratore delegato si presenta dunque dai carabinieri e denuncia la truffa. Mettere per iscritto ciò di cui è stato testimone non solo è un dovere, ma lo mette al riparo da possibili grane future. Quattro giorni dopo, al rientro a Roma, informa Foa. Prima che anche lui sia sentito dai carabinieri e sporga a sua volta una denuncia che, con quella di Salini, prende la strada della Procura di Roma.


Sette mesi di silenzio
In quell’inizio di maggio del 2019, la truffa dunque è sventata. Ma Foa non sembra smaniare dal venirne a capo. Informa di quanto accaduto e della denuncia che ha presentato il Collegio dei sindaci dell’azienda il 13 maggio. Declina – lo fa de visu e un’ultima volta durante una pausa della riunione del Cda del 17 maggio – la richiesta di Salini di avere copia della famigerata mail iniziale ricevuta dal sedicente Tria e della risposta che lui stesso gli avrebbe inviato il giorno successivo, sostenendo che ad impedirglielo è il segreto istruttorio dell’inchiesta avviata dalla Procura di Roma. Il che, tuttavia, non lo fa desistere, al contrario, dall’insistere con il suo amministratore delegato a chiedere conto alla sicurezza aziendale interna del grado di tenuta della rete e dei server Rai da intrusioni esterne. Foa viene anche sentito dalla Procura di Roma. E, di fronte a chi gli pone domande, spiega come, prima del 29 aprile, non avesse conosciuto o mai sentito alcun avvocato di nome Portolano. Soprattutto, che nulla della mail di Tria lo avesse sollecitato a farsi qualche domanda. È un fatto che soltanto il 28 novembre Foa informi il Cda di quanto accaduto nell’aprile precedente.


Furti di identità
La Commissione di vigilanza convoca nel dicembre 2019 sia Foa che Salini, ascoltando entrambi in seduta segreta e ricavandone la sgradevole impressione che il Presidente, in quella storia, giochi sulla difensiva. Che preferisca proporre l’immagine dell’ingenuo gabbato, piuttosto che spiegare le ragioni del perché non si sia mosso con la tempestività del suo amministratore delegato. La faccenda resta comunque sepolta lì. La Lega la liquida come «un’inutile perdita di tempo». E ai giornali, il 18 dicembre, viene consegnata un’anodina e fuorviante velina che dà conto di «una mail truffa in cui Foa sembra cascare, salvo poi avvisare Salini e la security dell’azienda ». Non esattamente, come si vede, quel che è accaduto.
Intanto però la Procura di Roma lavora. Dispone accertamenti informatici sulle mail consegnate da Salini. Identifica l’avvocato Francesco Portolano. Un professionista di primissimo livello con uffici a Milano e Ginevra. Conclude, rapidamente, che è una vittima della truffa. Anche la sua identità, come quella di Tria, è stata infatti sottratta dagli architetti della stangata. Chi ha parlato con Foa, di quel professionista spendeva insomma il nome, dopo averglielo a sua insaputa rubato. E non per la prima volta. La Procura di Roma scopre infatti che l’avvocato Portolano già il 16 aprile del 2019 (due settimane prima della falsa mail di Tria) ha denunciato a Milano di essere stato vittima di un furto di identità a scopo di truffa. E di averlo fatto una seconda volta, il 20 giugno successivo, dopo aver scoperto che qualcuno aveva continuato a spendere fraudolentemente il suo nome.
La Procura di Roma si spoglia dunque della sua competenza e l’indagine prende la strada della Procura di Milano dove il procuratore aggiunto, Eugenio Fusco, e i carabinieri hanno già fatto molta strada. Ma molta.


I due italiani riparati in Israele
La tentata stangata alla Rai, agli occhi degli inquirenti milanesi, è infatti l’ultima tessera di un formidabile mosaico che, tirando anche il filo delle denunce dell’avvocato Portolano, si è andato componendo in mesi di indagine, anche grazie al sostegno di altre polizie europee e non. Le vittime sono sempre grandi aziende. Ventisette, appunto, soltanto in Italia. Il format lo stesso. Come l’organizzazione che l’ha brevettato. Si sceglie il "Ceo" di una grande società come vittima. Lo si aggancia con e-mail che hanno quale dominio quello di una "controllante". Si chiede al "Ceo" piena e riservata collaborazione per la definizione di operazioni finanziarie strategiche e di rilevante importo. Si convince il "Ceo" a creare un canale di comunicazione parallelo su indirizzi mail privati e, a quel punto, appare il finto avvocato d’affari incaricato di chiudere l’operazione. L’ultimo passaggio è l’indicazione di un conto corrente di una banca di Hong Kong dove accreditare le somme.
La Procura di Milano conta che almeno cinque siano le stangate andate a segno. Dieci milioni di euro. Di cui riesce a individuarne e congelarne poco più di quattro. Soprattutto, la Procura di Milano riesce a dare un volto ad almeno due giovani italiani che, ne ha le prove, di quell’organizzazione fanno parte. Hanno lasciato l’Italia da qualche anno per stabilirsi in Israele. E sembrano usciti da un film. Uno di loro, soprattutto. Parla almeno cinque lingue. Veste di un’eleganza ricercata. Vive spostandosi tra Europa e Medio Oriente in hotel a cinque stelle. Ama le auto fuoriserie, le uniche che utilizza per spostarsi. E che affitta in contanti quando passa per l’Europa. Dove il denaro incassato a Hong Kong rientra attraverso un complesso tragitto di bonifici estero su estero, concepito per cancellarne l’origine e per essere reinvestito in acquisti immobiliari in Italia.
Dicono ora che il tempo dei due stia scadendo. Che, presto, saranno arrestati per pagare il conto tutto in una volta. Rai compresa. E chi sa che quel giorno la loro storia e quella delle loro numerose vittime non faccia un passo avanti ancora. Anche perché, per essere «un’inutile perdita di tempo», come appunto ebbe a dire chi seppellì la faccenda, si riconoscerà che il tempo a qualcosa è servito.