Medusa, 8 maggio 2020
Kafka, guerra e nuoto
Sul viale lungo la Miljacka, all’altezza del Ponte Latino, a Sarajevo, un colpo esploso dalla semi-automatica di Gavrilo Princip colpisce al collo l’arciduca Francesco Ferdinando, il 28 giugno 1914. L’erede al trono Austro-Ungarico muore dopo pochi minuti. Nel giro di un mese l’impero dichiara guerra al Regno di Serbia e nel resto d’Europa precipitano antichi rancori tra nazioni e potenze politiche che portano al conflitto militare che oggi chiamiamo Prima Guerra Mondiale. Cosa provano i cittadini tedeschi, austriaci, francesi, russi a vivere questi eventi prima che diventino per sempre storia? In quelle settimane, Stefan Zweig scrive, sul giornale viennese Neue Freie Presse: «Nulla, nulla può trovare pace e riposo in giorni simili, l’umanità ha trascinato nella sua battaglia assassina gli animali e la natura. Più breve è ora il sonno del mondo, più lunghe le notti e più lunghi i giorni».
L’armistizio sarà firmato solo l’11 novembre del 1918, dopo la morte di 10 milioni di soldati e 7 milioni di civili. All’inizio di tutto, il 2 agosto 1914, quando il governo tedesco decide ufficialmente di prendere parte alle ostilità, Franz Kafka, a Praga, annota su un quaderno: «La Germania ha dichiarato guerra alla Russia. – Nel pomeriggio, lezione di nuoto».
È un passaggio dei suoi diari che è stato usato spesso per rinsaldare il mito di uno scrittore geniale e distante, talmente assorbito dalle proprie ossessioni, dalla «lucidità vertiginosa dei propri incubi», come scrive per esempio Javier Cercas, da rimanere «indifferente alla storia», estraneo alle questioni politiche, incurante persino dei grandi drammi del suo tempo.
Personalmente, ho invece sempre letto quella frase come se fosse un suo brevissimo racconto, dove Kafka, tutt’altro che disinteressato, in un lampo descrive, alla sua maniera, l’impotenza del singolo contro un accidente inconcepibile come lo scoppio di un confitto mondiale. Davanti alla guerra, che è un’epica impossibile da contenere in un unico pensiero, un uomo qualsiasi non può fare altro che cercare rifugio nella propria ridicola quotidianità, finché ce n’è una, e andare a lezione di nuoto.
(Neanche la mia, di teoria, sta bene in piedi: i biografi di Kafka hanno dimostrato che i suoi sentimenti nei confronti della guerra sono stati ambigui, e non fu certo un pacifista, cercò anzi più volte, invano, di arruolarsi. Ma il fatto che volesse partecipare al conflitto – erano pure altri tempi – non significa che non avvertisse allo stesso tempo la soffocante eccezionalità di quello che stava accadendo).
In questi giorni sto rileggendo molti racconti di Kafka. Uno a cui non avevo mai prestato grande attenzione è “Un vecchio foglio”, scritto proprio durante la guerra. Inizia così: «Sembra che molto sia stato trascurato nella difesa della nostra patria. Finora non ce ne siamo curati e ci siamo dedicati al nostro lavoro; ma gli eventi degli ultimi tempi ci preoccupano». Continua descrivendo una città occupata da una folla di nomadi che sporcano, fanno casino, parlano una lingua sconosciuta, sembrano corvi che gridano, forse non sono neanche umani, «gli si rovesciano gli occhi e gli esce la schiuma dalla bocca». Si prendono tutto quello di cui hanno bisogno e a un certo punto del racconto, verso la fine, divorano, vivo, il bue del macellaio. Lo fanno proprio sotto il palazzo dell’Imperatore, che non fa nulla per fermarli. Il finale: «A noi artigiani e commercianti è affidata la salvezza della patria; ma noi non siamo all’altezza di un simile compito; né mai ce ne siamo vantati. Si tratta di un malinteso; e questo malinteso è la nostra rovina». Di cosa parla questo racconto? Di nuovo: di quello che si prova a sentirsi in trappola, mentre la quotidianità a cui eravamo abituati (commercianti e artigiani) viene schiacciata da una minaccia indecifrabile.
Kafka riusciva a concentrare la tensione narrativa delle sue storie dentro a un nucleo essenziale, senza dover delineare l’evoluzione di vicende o personaggi e senza arricchire i racconti di troppe descrizioni («intuì che del mondo circostante ormai andava nominato il numero minimo di elementi», scrive Roberto Calasso in K., «un affilatissimo rasoio di Occam che affondava nella materia romanzesca»). Basta pensare a qualcuno dei suoi racconti più noti, “Il cruccio del padre di famiglia”, “Davanti alla legge”, ma ci sono anche scritti minori di Kafka che sono poco più che aforismi, come “Il prossimo villaggio” oppure “Piccola favola” – quest’ultimo è talmente breve che possiamo riscriverlo per intero qui:
«– Ahimé, – disse il topo, – il mondo si rimpicciolisce ogni giorno di più. All’inizio era così grande da farmi paura, mi sono messo a correre e correre, e che gioia ho provato quando finalmente ho visto in lontananza le pareti a destra e sinistra! Ma queste lunghe pareti si restringono così alla svelta che ho già raggiunto l’ultima stanza, e lì nell’angolo c’è la trappola cui sono destinato.– Non devi far altro che cambiare direzione, – disse il gatto, e se lo mangiò».
David Foster Wallace usò proprio “Piccola favola” per parlare della comicità di Kafka (nella raccolta Considera l’aragosta), ma già Bruno Schulz e Kundera e altri ancora avevano proposto una lettura comica e non solo tragica delle sue opere, e persino il suo amico Max Brod raccontò di come «quando Kafka leggeva i suoi scritti agli amici, quell’umorismo diventava particolarmente manifesto. Ridemmo, per esempio, senza freno quando ci fece sentire il primo capitolo del Processo. Egli stesso rideva talmente che per qualche momento non era capace di continuare la lettura».
«La Germania ha dichiarato guerra alla Russia. – Nel pomeriggio, lezione di nuoto» ha la levigatura di una barzelletta, è una scintilla assurda provocata dalla frizione di una cosa enorme contro un’altra assolutamente insignificante.