Corriere della Sera, 8 maggio 2020
Soldi e riforme
Nel marzo del 1933 l’industria italiana vacillava, in Germania la disoccupazione di massa aveva portato Hitler al potere e in Gran Bretagna un adulto ogni cinque era senza lavoro. John Maynard Keynes mandò al Times un articolo dall’attacco sconcertante: «Se la nostra povertà fosse dovuta a una carestia, a un terremoto o a una guerra, se difettassimo di beni materiali e delle risorse per produrli, gli unici modi per tornare alla prosperità sarebbero il duro lavoro, l’astinenza e l’inventiva».
«In realtà – prosegue Keynes –, le nostre difficoltà derivano da qualche guasto nei meccanismi immateriali della mente (...). È come se due automobilisti, incontrandosi a un incrocio, fossero incapaci di passare perché nessuno dei due conosce il codice stradale. Nulla è richiesto se non un piccolo, lucido ragionamento».
Provocatorio allora, un approccio del genere oggi suonerebbe scandaloso. L’Europa e l’Italia sono davvero nella morsa di una calamità, non sappiamo bene se naturale o prodotta dall’uomo. Eppure questa non è una ragione sufficiente per rinunciare a un «piccolo ragionamento» su dove siamo e come potremmo uscire di qui. Siamo a un punto in cui la strategia italiana per l’economia si è data due direttrici: una risposta rapida del governo per far arrivare liquidità alle imprese e alle persone, tenendo così in vita il tessuto sociale e produttivo durante il coma indotto dall’obbligo di fermare il virus; e la richiesta di una risposta europea per far sì che lo Stato e le imprese possano finanziarsi a basso costo, e per mettere a disposizione dell’Italia circa duecento miliardi di risorse comuni europee da investire ne lla ricostruzione.
Nessuna di queste due strade si sta rivelando in discesa. Il Corriere documenta da settimane le lentezze lungo la cinghia di trasmissione da Palazzo Chigi alle tasche dei cittadini, attraverso la formazione delle norme, l’istituto di previdenza o le banche che a volte si comportano come se non credessero del tutto alla garanzia pubblica sui prestiti che lo Stato chiede loro di concedere. In questo ha ragione l’ex ministro Giovanni Tria quando ricorda ( Sole 24 Ore del 6 maggio) che il fattore tempo non è indifferente: se il denaro arriva quando un’impresa è già fallita, l’imprenditore potrà usarlo ancora ma la capacità produttiva e i posti di lavoro saranno scomparsi per sempre.
Neanche sulla seconda direttrice fila tutto liscio. In Europa mostrano già dei limiti sia la risposta dei governi con la Recovery Initiative che quella della Banca centrale, che dovrebbe ridurre al minimo possibile lo stress finanziario. La Federal Reserve americana e la Bank of England ci sono riuscite, com’è loro dovere durante una recessione drammatica. Da metà febbraio i rendimenti a lungo termine dei titoli di Stato statunitensi e britannici si sono più che dimezzati, rendendo meno caro l’accesso al credito anche per le imprese. In Italia invece, dal giorno in cui fu scoperto il «paziente 1», il rendimento dei titoli di Stato decennali è più che raddoppiato. Imprese che oggi si rivolgono alle banche per ottenere liquidità subiscono dunque un aggravio sul costo dei loro debiti nel pieno della recessione peggiore. È l’opposto di ciò che servirebbe. Eppure l’aumento del deficit in Italia non è superiore a quello di Londra o degli Stati Uniti.
Com’è stato possibile? In parte duole ancora la cicatrice impressa dalla gaffe di Christine Lagarde del 12 marzo («non siamo qui per chiudere gli spread»), che il successivo piano di acquisti di titoli da 750 miliardi di euro da parte della Banca centrale europea è riuscito a ridurre, non a eliminare. Malgrado interventi per decine di miliardi, da allora il costo del debito italiano a lungo termine è sempre rimasto di circa mezzo punto più alto di prima. Poi è arrivata la Corte costituzionale tedesca, proprio ora che quasi tutta la Bce e la sua presidente francese hanno abbandonato le remore e si avviano ad espandere ancora di più il sostegno all’area euro. Lo faranno comunque. Eppure la nube di incertezza sollevata dalle toghe rosse di Karlsruhe resterà nell’aria a lungo e appannerà l’ascendente della Bce sui mercati.
Quanto alla Recovery Initiative, anch’essa arriverà e muoverà somme molto grandi, grazie anche al lavoro del commissario italiano Paolo Gentiloni. Ma è difficile che quel piano si dimostri sufficiente a compensare la devastazione in corso, perché troppe forze stanno spingendo in senso contrario: Olanda, Finlandia e Danimarca continuano a opporsi – evitando alla Germania di doversi esporre – mentre la stessa cancelliera Angela Merkel deve guardarsi dagli avversari interni che aspirano alla leadership nel suo partito e nel governo da posizioni di intransigenza.
Il risultato paradossale è che alla fine l’Italia riceverà dall’Europa a vario titolo una quantità enorme di denaro, ma di per sé esso non basterà a mettere il Paese in sicurezza. Il piano per la ricostruzione trasferirà a Roma forse 170 o 180 miliardi di euro, in parte come nuovo debito; i nuovi acquisti di titoli porteranno magari altri 300 miliardi in carta italiana nel bilancio della Banca centrale. In teoria ciò dovrebbe bastare a garantire il finanziamento del deficit nei prossimi due anni, ma la fragilità istituzionale dell’area euro, i dubbi sulla stabilità e la natura stessa degli aiuti e le cattive condizioni del Paese non lo mettono al riparo dal rischio che nei prossimi mesi la recessione si trasformi in crisi finanziaria.
Per questo per il governo è arrivato il momento di alzare lo sguardo. Serve una terza direttrice nella risposta all’emergenza economica. Perché se l’Italia crescesse nei prossimi cinque, dieci o vent’anni tanto poco quanto è cresciuta dall’inizio del secolo, allora il suo debito pubblico sarebbe già comunque insostenibile. In qualunque condizione. Serve un piano per rafforzare la cilindrata nel motore del Paese, da iniziare a realizzare e spiegare al resto del mondo subito. Alcuni dei nodi che incatenano l’Italia da troppo tempo vanno sciolti adesso. La buona notizia è che molte delle riforme necessarie oggi richiedono meno sacrifici a chi ha di meno e qualche sacrificio in più a chi ha di più: nell’amministrazione, nella giustizia, nelle professioni, nelle imprese da arricchire in capitali, taglia e tecnologie.
Se non lo faremo, se non lo spiegheremo bene al resto del mondo – presto – allora qualcuno là fuori nei prossimi mesi darà l’Italia per spacciata. È il momento di «un piccolo, lucido ragionamento».