Avvenire, 8 maggio 2020
Elogio dell’escursionismo
Il giornalista e scrittore di viaggio Sylvain Tesson, nel libro Nelle foreste siberiane (in Italia pubblicato nel 2012 da Sellerio) descrive i sei mesi trascorsi in una capanna in mezzo ai boschi e ai ghiacci, in Siberia, nella più totale solitudine. Si trovava sulle rive del lago Bajkal, a oltre cento chilometri di distanza dal primo villaggio abitato. Abituato a imprese di ogni tipo, dal giro del globo in bicicletta alle scalate di cattedrali e grattacieli, Tesson per ammazzare il tempo si è portato dietro molti libri, da Lucrezio a Baudelaire, da Eliade a Cendrars, consapevole che la sfida principale sarebbe stata quella di trascorrere le giornate in silenzio totale, da puro eremita. Fra gli autori preferiti non poteva mancare Henry David Thoreau, lo scrittore americano noto soprattutto per la sua difesa a oltranza della vita immersa nella natura, lontano dalla frenesia della città. Per Thoreau l’eremitismo diventa, senza alcuna superbia, filosofia di vita, a metà strada fra stoicismo e cristianesimo. I libri di Thoreau, in particolare Walden ovvero vita nei boschi, sono del resto diventati una sorta di Bibbia per gli amanti della natura, soprattutto per coloro che scelgono di compiere una vita del tutto ritirata, lontano dalla civiltà. Come ben raccontano i film In to the wild di Sean Penn del 2007, che ebbe un grandioso successo così come il libro Nelle terre estreme di Jon Kracauer da cui è tratto, e il più recente Senza lasciare traccia di Debra Granik, uscito un anno fa nelle sale italiane.
Quest’ultima pellicola racconta l’opzione radicale di un veterano della guerra in Iraq che, assieme alla figlia adolescente, si nasconde nei boschi. L’uomo, di nome Will, oltre che a convivere con piante ed animali, insegna a leggere e a scrivere alla giovane, che sin da piccola vive isolata da tutto e da tutti. Unico contatto col mondo è la discesa in città una volta al mese, quando il protagonista si reca nel centro di assistenza per i reduci dal conflitto dove riceve medicine che rifiuta di assumere. Per l’occasione i due comprano anche un poco di viveri, dato che in mezzo alla natura si cibano solo di erbe, funghi e poco altro: nella sua scelta utopica e radicale Will non va nemmeno a caccia. Un giorno i due vengono scoperti dalla polizia e affidati ai servizi sociali. Soprattutto perché Thomasin, che il papà chiama Tom, non è mai andata a scuola. Non vengono però separati e viene loro assegnata una piccola casa, a patto che Will accetti un lavoro in un’azienda che coltiva abeti di Natale e Tom vada a scuola. La ragazzina a poco a poco si ambienta ma il padre è sempre più riluttante e la costringe a fuggire. Insieme trovano riparo in una comunità che vive in mezzo a una foresta. Anche qui Tom si trova a suo agio, ma dopo qualche mese Will se ne va da solo tra i boschi. La scena finale vede Tom riporre vicino a un albero una sacca con del cibo per il padre. Ma oltre che costituire un elogio della scelta dell’eremitismo, i libri e i film che abbiamo citato sono anche un invito esplicito alla pratica del cammi- nare. Proprio Thoreau, che era nato nel Massachussetts nel 1817 e che a un certo punto della sua vita si costruì una capanna in mezzo ai boschi e scelse di viverci da solo, nel 1862, un anno prima della morte, scrisse un librettino intitolato semplicemente Camminare (tradotto qualche mese fa da Edb), un encomio dell’arte del passeggiare e del vagabondare. «Quel che penso – spiega – è che non potrei preservare intatta la mia salute e il mio spirito se non trascorressi almeno quattro ore al giorno, in genere anche di più, a vagare nei boschi, sulle colline e per i campi, completamente libero da qualsivoglia impegno mondano». E ancora: «Il mio spirito infallibilmente si innalza in proporzione alla sobrietà del paesaggio. Datemi l’oceano, il deserto, o la natura selvaggia!».
Ora anche uno dei più affermati teologi di lingua tedesca, Gisbert Greshake, pubblica per i tipi di Queriniana un volume con lo stesso titolo, Camminare (pagine 136, euro 13), che in realtà è soprattutto un’esaltazione dell’escursionismo. Abituato a trascorrere le vacanze estive a San Pastore, una piccola tenuta a trenta chilometri da Roma, non lontano dai monti Prenestini e Simbrioni, lo studioso descrive le sue lunghe camminate nei luoghi spesso incontaminati dell’Italia centrale. E racconta come, mentre nei decenni passati gli capitava sempre di essere accompagnato da ospiti occasionali e di incontrare altre persone che si muovevano a piedi lungo i sentieri, recentemente gli capita di trovarsi da solo. Fenomeno curioso e controcorrente: mentre si moltiplicano i pellegrinaggi a piedi, come il famoso Cammino di Santiago, pare che l’escursionismo vero e proprio sia in calo. Greshake riporta i dati di un’inchiesta del Ministero federale tedesco per l’economia e la tecnologia, da cui emerge che più di un terzo della popolazione che abita in Germania non fa mai escursioni e che solo il 6 per cento impugna di frequente il bastone da trekking. «In altre parole – è il suo commento – due terzi dei tedeschi non vanno mai o quasi mai a camminare!».
La metà degli intervistati sostiene che l’escursionismo è un’attività troppo faticosa e noiosa. Come noto, fare escursionismo è ben più che camminare. Innanzitutto per la durata, che è di almeno mezza giornata, poi per la distanza percorsa, che è di oltre dieci chilometri. In entrambi i casi però si esprime uno dei poli della realtà umana. Scrive il teologo: «È parte della natura umana sia restare in un posto, prendere dimestichezza con quanto è dato, trovare la quiete e riposare, ma altrettanto lo sono il partire, il fare strada, il mettersi in movimento verso qualcosa di nuovo, lo sperimentare e l’esplorare cose fino a quel momento ignote». È questo il senso del camminare e ancor più del compiere escursioni anche impegnative, che contemplano in ogni caso anche momenti di sosta per riprendere fiato. Attività che, oltre essere salutari, sono occasione di meditazione sulla propria vita, di spezzare i ritmi concitati di una società basata sulla cronocrazia, non importa che si tratti del lavoro o del tempo libero. Camminare o fare trekking in montagna è l’esatto opposto dell’accelerazione dell’esistenza dei nostri tempi, ci spinge a rallentare. Ed è anche il contrario di quanto capita al turista postmoderno, che passa accanto ai luoghi, alle persone e alle cose con estrema superficialità. Soprattutto lo sguardo è rivolto a una destinazione, mentre oggi non c’è più l’idea della via come una meta e tutto è frammentario. In questo senso è giusto ricordare come un cammino contempli anche la possibilità di deviazioni: un sentiero in salita può a un certo punto diventare una discesa e poi tornare a salire; a volte una deviazione del percorso può condurci verso una strada chiusa o sbagliata e ci tocca tornare indietro per trovare il tracciato da intraprendere. Sapendo che, come scrive Kafka, «soltanto quando si arriva alla meta si sa se la via era giusta o sbagliata». Una citazione che ci fa capire, ancora una volta, come il camminare possa essere una metafora della vita.
Homo viator è il titolo di un libro poco noto di Gabriel Marcel, ma Greshake cita numerosi pensatori che hanno celebrato l’arte del camminare, da Aristotele a Tommaso d’Aquino, che percorse oltre 10mila chilometri a piedi, da Nietzsche a Kierkegaard a Romano Guardini, sino a scrittori come Hermann Hesse e Thomas Bernhard, che in un racconto magistrale (anche questo dal titolo Camminare, in Italia tradotto da Adelphi diversi anni fa e riproposto nel 2018) dice fra l’altro: «Camminare e pensare sono in un rapporto costante di reciproca intimità». Perché, lo dice un altro teologo tedesco, Anselm Grun, non si tratta solo di «un semplice movimento, un semplice esercizio fisico, un modo sensato di impiegare il proprio tempo libero, ma di un’attività che tocca e coinvolge gli strati più profondi della coscienza umana. L’uomo si scopre un essere in cammino».