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 2020  maggio 07 Giovedì calendario

Torna l’ufficio cubicolo di Bartleby e di Fantozzi

Davvero torneremo nell’odiato cubicolo? Davvero questo virus ci riporterà a piè pari negli anni Ottanta, in quei due metri quadrati dove ogni impiegato macerava le proprie frustrazioni tra pareti divisorie ricoperte di tristi tessuti color carta da zucchero, con la puntina sulla foto della famiglia in riva al mare e il calendario omaggio della banca?
Pare di sì. I divisori saranno però in plexiglass, un materiale che nessuno si filava e che adesso è diventato il più richiesto di questa nuova era covidica. 
Interessanti evoluzioni. O involuzioni, a seconda dei punti di vista. Perché, da sempre, il luogo in cui noi umani trascorriamo le otto ore canoniche del lavoro dipendente, definisce chi siamo nella società, ma anche a che tipo di società apparteniamo. E dopo la quarantena e la solitudine chiusi tra le quattro mura domestiche, doversi di nuovo rinchiudere, seppure in pareti di plexiglass, non è una prospettiva. Stando soprattutto a quanto racconta il ricercatore Nikil Saval in Cubed, The Secret History of the Work Space, un saggio uscito nel 2014 e subito segnalato tra i libri degni di attenzione dal New York Times, ma che torna utile e attuale oggi per capire cosa è accaduto e prevedere cosa potrebbe accadere. 
I cubicoli, spiega Saval, apparvero negli uffici americani negli anni Sessanta grazie all’idea del designer anticonformista Robert Propst, il quale credeva che progettare uffici modulari e flessibili avrebbe incoraggiato la personalizzazione, il movimento e le interazioni tra impiegati. Erano gli anni delle rivoluzioni e delle utopie. Liberiamo l’uomo dalla schiavitù del lavoro (e del mal di schiena da scrivania). 
In verità non è stato così. Il cubicolo è diventato un sinonimo di impiegato in gabbia, del pollo in batteria, irreggimentato e impersonale, e la monotona vita da scrivania ha ispirato ironia e stereotipi. Il cubicolo ha ispirato sit com, film e serie televisive (vedi The Office), che ridicolizzano la vita d’ufficio, le varie situazioni da Fantozzi e ragionier Filini (ogni nazione ha i suoi), passando per le strisce comiche di Dilbert, la versione impiegatizia dei Peanuts. Addirittura bestseller come Exception di Christian Jurgersen, ambientato nel mondo paranoico e claustrofobico dell’ufficio cubicolare, dove gli impiegati complottano e si uccidono tra di loro. 
Secondo un sondaggio americano del 1997 il 93 per cento dei colletti bianchi diceva che al cubicolo avrebbero preferito un altro luogo di lavoro. Uno studio del 2013 di due ricercatori dell’Università di Sidney conferma: sei intervistati su dieci odiavano il cubicolo. Nell’interessante cavalcata a ritroso nei secoli, Saval dice che è difficile datare la nascita dell’ufficio. In linea di massima esistono uffici quando esistono documenti e scrivani che li compilano. Però i monasteri medievali o le biblioteche non si possono definire veri e propri uffici. Mentre gli Uffizi sì, perché sono il luogo dove i Medici tenevano il proprio archivio. Impiegati e uffici esistono anche nella Londra secentesca di Pepys, ma il boom si ha a metà Ottocento, quando la civiltà industriale ha bisogno di contabilizzare ii propri fatturati. Dal 1860 al 1920 è il grande salto: già nel 1855 a New York gli impiegati da ufficio sono il terzo gruppo più popoloso di lavoratori. 
In quegli ambienti nasce anche uno dei più celebri cubicoli della letteratura, quello dove si rintana nel suo mutismo lo scrivano Bartleby, che a ogni cosa risponde: preferirei di no. Epitome dell’impiegato senza desideri e senza identità, affascinante personaggio di cui nessuno ha mai realmente capito il mistero, Bartleby era anche un po’ l’alter ego di Melville stesso, che prima di vestire i panni di Ismaele e di partire per viaggi esotici alla caccia della balena bianca era stato lui stesso un impiegato. 
Quindi il cubicolo sta all’impiegato come gli open space stanno ai nuovi lavori della Silicon Valley, alle start up dove tutto è circolare, dove è figo condividere, dove non si ha neppure più un proprio desk (mai chiamarlo scrivania), perché si arriva con il proprio laptop (mai chiamarlo computer) e ci si siede dove ci pare. Il nuovo modello è la sede di Apple e gli uffici di Google a Mountain View, dove addirittura non solo ci si sposta di scrivanie, ma addirittura di edificio (con bicicletta in dotazione) e ci sono ristoranti dove socializzare, luoghi per il brainstorming, con gadget e ping pong per attivare la creatività. 
Da We Work anche l’ufficio è temporaneo. Si affitta per il periodo che serve. Come sarà possibile gestire tutta questa fluidità al tempo del virus? Cose accadrà adesso a questi nuovi luoghi di lavoro? Alla Panasonic in Giappone, racconta la rivista Wired, tra le varie ipotesi, sono allo studio badge che funzionano anche come tracciamento degli spostamenti dei dipendenti. In altre aziende per garantire il distanziamento sociale si parla di telecamere che avvisano se due persone sono troppo vicine e anche di intelligenze artificiali in grado di rilevare l’uso della mascherina. 
Se l’alternativa all’incubo del cubicolo è l’incubo della sorveglianza orwelliana, allora meglio stare con Bartleby: preferirei di no.