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 2020  maggio 07 Giovedì calendario

Storia della guerra Stato-mafia sulle carceri

Sono pochi i palermitani di una certa età che non sappiano cosa ci sia in via Enrico Albanese numero 3. È un monumento della città, un po’ come il Palazzo dei Normanni, le catacombe dei Cappuccini con le sue mostruose mummie o la chiesa di San Giovanni degli Eremiti con le sue arabeggianti cupole rosse. E per alcuni è anche qualcosa decisamente di più familiare, intimo, quasi una seconda casa. Il carcere dei mafiosi per eccellenza è sempre stato quello: l’Ucciardone.
«Vado in villeggiatura», dicevano con compiacimento alle loro mogli i boss quando stavano per varcare il portone arrugginito di via Enrico Albanese numero 3, e poi lì dentro s’ingozzavano di aragoste o s’intrattenevano nottetempo con le “signorine” che gli agenti di custodia facevano scivolare dietro l’orto.
Lo Stato lasciava fare.
Palermo felicissima, sembrava che non dovesse finire mai. E invece nella storia dei mafiosi e della loro molto speciale frequentazione con il carcere e del loro rapporto con la giustizia italiana, c’è un prima e un dopo.
C’è il Grand Hotel Ucciardone e ci sono le isole dei dannati l’Asinara e Pianosa - ci sono gli ospiti più riveriti che ricevevano le visite dei latitanti e c’è la fossa dove hanno sepolto per un quarto di secolo Totò Riina, c’era il Dom Pérignon che scorreva a fiumi e ci sono le finestre a sbarre incrociate delle celle che “oscurano il paesaggio”. Tu non puoi vedere fuori e fuori non possono vedere te. Il paradiso e l’inferno.
Il confine è il ‘92, l’estate delle stragi. Il 20 di luglio, il giorno dopo l’uccisione di Borsellino, cambia tutto nell’Italia delle mafie e nell’Italia dello Stato che combatte le mafie.
E quel tutto è in un numero: 41 bis.
Sino ad allora il carcere non aveva mai fatto paura ai boss. Perché loro avevano sempre avuto una certezza: il carcere non è mai definitivo, è sempre provvisiorio.
Anche con una condanna all’ergastolo in primo grado, lo sapevano che prima o poi sarebbe arrivata un’”aggiustatina” al processo. Era andata sempre così. Il carcere quindi bisognava farlo e pure con “dignitudine”, con decoro.
Era andata sempre così dalla metà dell’Ottocento quando i Borboni avevano costrutito la fortezza Ucciardone in un pianoro dove crescevano i cardi, les chardons (da lì il nome) dietro le casupole del Borgo Vecchio.
Nel Ventennio lo chiamavano Villa Mori, in onore del prefetto di ferro che aveva ingabbiato i briganti della Madonie su mandato del Duce. Ma lo splendore della prigione di Palermo, la prigione della mafia, è giunto con i favolosi anni ‘60 e ‘70, l’infermeria regno dei summit, il parlatorio come un suk, la settima sezione come il salotto della Cupola. Lo Stato lasciava fare.
In tutti gli istituti penitenziari d’Italia scoppiavano le rivolte dei detenuti ma all’Ucciardone non si muoveva foglia. Un carcere modello, lo definivano gli ispettori ministeriali. Certo: comandavano Pietro Torretta, Tommaso Buscetta, i fratelli La Barbera, i cugini Greco, i Fidanzati dell’Arenella.
Poi il maxi processo, poi ancora le bombe. Neanche dodici ore dopo l’uccisione del procuratore Borsellino, i parà della Folgore scendono dall’alto sull’Ucciardone e trasportano tutti i boss a Pianosa. Il ministro della Giustizia Claudio Martelli aveva appena firmato il decreto che diventerà, nell’immediato e negli anni futuri, l’incubo di tutto il popolo mafioso. Il 41 bis, il carcere duro.
È la fine delle certezze sull’impunità che avevano sempre avuto, è l’inizio di una vicenda che da quel luglio 1992 fra ricatti veri e presunti, appelli inquietanti contro il 41 bis, trattative rotolate nei processi fra detenuti eccellenti e uomini delle istituzioni - non si è mai chiusa. Il carcere sempre come luogo di “compensazione” fra lo Stato e la mafia, una sorta di camera iperbarica, terra di mezzo per scorribande. La tensione delle mafie si misura lì dentro.
Perché il 41 bis ha sfregiato un mondo criminale, ha reso il mafioso più prigioniero degli altri, strappato ogni privilegio.
Soprattutto quello del comandare. E il mafioso non può più fare il mafioso.
È la cronaca degli ultimi anni. Li hanno portati via, lontano dalla Sicilia. A Tolmezzo, all’Aquila, ad Ascoli Piceno, a Spoleto, a Badu ‘e Carros. Una deportazione di massa. Davanti a via Enrico Albanese numero 3, l’unica attrativa rimasta è ormai un albergo a quattro stelle. L’hanno naturalmente chiamato Hotel Ucciardhome.
E naturalmente tutto quello che abbiano sin qui scritto è, in qualche caso, pura teoria. Di “buchi” dentro il famigerato 41 bis ne sono stati scoperti già tanti, troppi. Telefonini per comunicare fuori, pizzini, misteriosi visitatori. La storia più clamorosa del carcere duro che tanto duro poi non è risale però fra il settembre e il novembre del 1996 quando le due mogli dei fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo - quelli delle bombe ai Georgofili - diventarono papà al 41 bis. Le loro mogli partorirono due bei bambini mentre loro erano “totalmente isolati”. Lo Stato ha lasciato fare.
Per tornare all’attualità. Il ministro della Giustizia Bonafede ha solennemente annunciato: «Rimando dentro tutti i mafiosi».
Una boutade? Nel nostro Paese è già capitato, nel febbraio del 1991.
Con un cavillo, Sua Eccellenza Corrado Carnevale, presidente della prima sezione penale della Cassazione meglio conosciuto come l’Ammazzasentenze, ordinò la scarcerazione di 43 boss. Qualche giorno dopo il ministro della Giustizia Martelli firmò, consigliato da Falcone che era direttore degli Affari Penali, un decreto per riportare dentro quei 43. A Palermo lo chiamarono “il mandato di cattura del governo”.