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 2020  maggio 07 Giovedì calendario

La situazione delle piccole imprese, spiegata

Le piccole imprese sono state particolarmente colpite dal lockdown. Quelle con meno di 5 lavoratori contano per circa un quarto del lavoro dipendente, ma per il 40 per cento dei lavoratori rimasti a casa anche dopo il 4 maggio. Cosa hanno fatto sin qui i decreti varati dal governo per loro? Il decreto Cura Italia ha esteso a loro la copertura della cassa integrazione. Qui la rapidità era essenziale.
Purtroppo gli strumenti previsti a questo scopo, la cassa integrazione in deroga e il fondo di integrazione salariale, non sono adatti a situazioni di emergenza: hanno processi troppo macchinosi, resi ancora più lunghi dal comportamento dilatorio di molte regioni (scandaloso, anche in questo campo, quello della Lombardia). Il risultato è che molti piccoli imprenditori hanno dovuto anticipare, magari indebitandosi, la cassa integrazione dei propri dipendenti per marzo e aprile, un risultato paradossale nel momento di più acuta crisi di liquidità per queste aziende.
Meglio sarebbe stato aprire a loro la cassa integrazione ordinaria e velocizzarne le procedure, che attualmente sono pensate per le grandi imprese che possono anticipare le prestazione ai dipendenti. Prevedono, infatti, ben quattro passaggi: domanda dell’impresa, autorizzazione Inps, richiesta dell’impresa con dettaglio di lavoratori coinvolti e finalmente pagamento. Una piccola impresa può sopravvivere solo se, contestualmente all’autorizzazione, arrivano i soldi.
Il governo è poi intervenuto per sospendere il pagamento di prestiti. Finora sono arrivate 1,6 milioni di domande, per 120 miliardi, di cui 900 mila da famiglie, per 54 miliardi. Un intervento necessario che però durerà solo fino al 30 settembre.Con il decreto liquidità il governo ha poi cercato di facilitare il flusso di credito alle imprese, fornendo garanzie sui prestiti delle banche. Qui, stando alle informazioni (necessariamente aneddotiche) che abbiamo raccolto sul campo, ci sono luci e ombre. Il decreto liquidità è complesso, ma probabilmente la sua innovazione principale consiste in prestiti fino a 25 mila euro garantiti al 100 per cento da stato e Confidi. Gli ultimi dati parlano di 70 mila domande di questo tipo, su di una platea potenzialmente interessata secondo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio di quasi 4 milioni, per un importo di 1,5 miliardi.
Nelle intenzioni del governo, con il 100 per cento di garanzie le banche avrebbero dovuto erogare questi prestiti quasi automaticamente e immediatamente. La realtà sembra essere a macchia di leopardo. Molti direttori di filiali sono restii a prestare a certi codici Ateco (come bar, ristoranti etc.), e molti ancora fanno una istruttoria. Il motivo è sottile ma importante. Le banche hanno sì una garanzia statale al 100 per cento, ma non sono sicure di poterla escutere in caso di procedura concorsuale, perché nel decreto manca una manleva (uno scudo giuridico) per le banche: se nella procedura concorsuale viene loro imputato un “incauto affidamento”, non avranno diritto a escutere la garanzia e la perdita rimarrà sul loro bilancio.
Inoltre, come avevamo previsto su queste colonne, le banche offrono sì il prestito al cliente (anzi spesso gli telefonano per sollecitarlo), ma a condizione che chiuda il vecchio fido non garantito per un ammontare equivalente o di poco inferiore: il risultato è che per il cliente cambia poco o niente, ma le banche hanno sostituito un fido non garantito con un fido garantito dallo stato al 100 per cento. Le nostre informazioni ci inducono a ritenere che sia un fenomeno molto diffuso.
Un risultato della crisi sarà una drastica riduzione dei profitti e un aumento dell’indebitamento di quasi tutte le imprese, quindi un peggioramento dei rating e più difficoltà di accesso al credito in futuro, soprattutto per le piccole imprese che rischiano di erodere il loro patrimonio. Qui il governo ha due possibilità, non necessariamente esclusive. La prima è di pensare a forme di agevolazione per la raccolta di capitale. Ma sappiamo che già in condizioni normali è molto difficile per le imprese italiane raccogliere capitale, anche se agevolate. La seconda è di allungare i termini del decreto liquidità, opportunamente modificato. Poiché i prestiti garantiti si iniziano a restituire tra due anni, le banche inizieranno ad avere una idea delle condizioni delle imprese cui hanno prestato verso il maggio 2022. Per facilitare il rifinanziamento di quelle imprese che per quell’epoca saranno traballanti, il governo potrebbe pensare a estendere il decreto liquidità fino al 2022. Per limitare gli effetti sul bilancio statale, si potrebbe pensare a ridurre le agevolazioni per le grandi imprese: il fondo Sace istituito dal decreto può arrivare a coprire la quasi totalità del credito attualmente erogato alle grandi imprese (170 miliardi su 180), un risultato che non crediamo fosse voluto dal legislatore.