il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2020
Un ricordo di Sandro Penna
Roma, aprile 1970, libreria Feltrinelli al Babbuino. Vestito con una salopette azzurra e l’aria da meccanico compare Sandro Penna. Mi appella “Renzuccio” ed esclama a voce alta, occhieggiando il baffuto libraio Conticelli: “Sono io il più grande poeta del Novecento, non ti pare, più di Montale. Lo stanno scrivendo tutti”. Sul banco il volume di Tutte le poesie, appena edito da Garzanti, con la bandella di Enzo Siciliano e una biografia scritta di suo pugno dove si parla dei 23 anni vissuti a Perugia e della città Mecca, la Roma dei suoi fanciulli. Ricorda le sue prime poesie presentate da Umberto Saba nel 1932, il volume del 1939 presso Parenti, fino a Croce e delizia del 1958.
Anche nella voce Sandro era un lirico. Lo conobbi alla fine degli anni Sessanta nella casa buia di Dario Bellezza. Mi disse che data l’oscurità di quel corridoio fuori non ci saremmo di certo riconosciuti. “Poeta in luce” lo definì Cesare Garboli, mentre il dimenticato Alfredo Giuliani scrisse che si trattava di “un poeta polinesiano, perfido e candido, intelligente e primitivo precipitato nella società cristiana e borghese dell’Occidente”. E certo era lieto Penna e quasi francescano, come voleva il suo amico Pasolini, ma non aveva attraversato il fascismo e il secondo dopoguerra indenne, senza le ferite della Storia, come raccomanda ancora oggi la vulgata. La sua era una malinconia che nasceva dalla tragedia di una vita immersa nella povertà, che lo vide anche fare la borsa nera seduto davanti a un tappeto di cianfrusaglie, accanto al cinema Giulio Cesare a Roma. Tra i diversi mestieri anche il rivenditore dei quadri che i suoi amici pittori, da Festa a Schifano, gli regalavano, sapendo bene che i suoi clienti preferivano i figurativi, come quelli di Fantuzzi. Nel mezzo degli anni Trenta scrisse un verso che sembra la pietra tombale di tutti i patetici neorealismi, cinematografici e letterari che seguirono, firmati da fascisti e comunisti: “Ma gli operai non sono forse belli”. Certo i ragazzi da Antologia Palatina, quelli dei lirici greci, detti “fanciulli”, affollano i suoi versi ma anche i giovani operai fanno la loro parte insieme ai paesaggi naturali della poesia romantica europea. Non sempre fanciulli greci, dunque e senza atmosfere ermetiche come immaginavano Sanguineti e Fortini. Il suo maestro era Umberto Saba, che amava le “trite parole”. Quella cantabilità, riconosciuta dai critici di diverse generazioni, proveniva dalle canzoni popolari ascoltate dalla bocca dei suoi fanciulli. Una per tutte: “Ma dove vai bellezza in bicicletta”. Per quell’amore divenne amico di Elsa Morante, che finì con litigare con Enzo Siciliano per il timore che una espressione irriguardosa verso il suo amico potesse incrinare il forte legame. Penna si definiva pederasta, non omosessuale e nemmeno pedofilo, e credeva che la pederastia fosse riconducibile alla natura.
Intervistato da un noto psicanalista, Pasolini si rifiutò di analizzarsi come omosessuale, dicendo che si trattava di natura, proprio quella di Penna, e pertanto indiscutibile.
In una copia di tutte le sue poesie trovata in casa di Moravia lessi una dedica che lo definiva “lucente eremita” e pensai subito che quella splendida definizione lo riguardasse. Era stato un lucente eremita tutta la vita. Basta vederlo nel documentario che Schifano gli dedicò e che trovate su Youtube, in mezzo ai quadri e ai libri che riempivano la sua casbah di via Mole dei Fiorentini dove morì di infarto il 21 gennaio 1977. In Stranezze si leggono questi versi “Il problema sessuale prende tutta la mia vita. Sarà un bene sarà un male mi domando ad ogni uscita”, che si accoppiano a “Io non posso cantare Opere Pie”, preferendo le sue periferie piene di una folla naturale ai salotti della Capitale frequentati dalla società letteraria rifiutata in blocco nell’intervista al Messaggero uscita postuma. Tra i suoi versi più recitati: “Felice chi è diverso essendo egli diverso. Ma guai a chi è diverso essendo egli comune”.