La Stampa, 6 maggio 2020
La pandemia dei Rohingya
CHENNAI (INDIA) Ricordate i 740 mila profughi Rohingya scacciati dalla Birmania fino in Bangladesh tre anni fa? Ecco, sono ancora lì. Sommati ai più di 200 mila esuli che già occupavano la provincia bengalese di Cox’s Bazar, oggi si è arrivati a un milione di persone: il record del campo profughi più affollato al mondo. Ora pensate alla nostra Era della Pandemia, cioè alla minaccia del Covid-19.
Difficile non pensarci. In questo campo profughi, la chiusura totale è iniziata solo a metà aprile, con il filo spinato nelle recinzioni, i posti di blocco nelle arterie principali, i pattugliamenti dentro e attorno ai campi e limitando dell’80 % gli spostamenti del personale di assistenza. Internet è proibito da settembre, e così girano tante voci infondate nel passaparola di questa metropoli di baracche raffazzonate con pali di bambù e tela cerata. Qui sopravvivono, leggete bene, 40 mila sfortunati per chilometro quadrato. Un’intera cittadina in un chilometro quadrato, un dato che conquista un altro brutto record: la densità demografica più alta al mondo.
Il sistema immunitario dei profughi è indebolito per le pessime condizioni. Con l’esodo del 2017, ci fu un’esplosione di difterite, l’anno dopo di colera e diarrea. È un mondo sovraffollato, ristretto, maleodorante per le fogne che strabordano ovunque, dove la mancanza d’informazione diventa un pericolo. A marzo, migliaia di Rohingya si sono raggruppati nel cuore della notte, chiamati dal muezzin, perché s’era sparsa la voce che solo la preghiera poteva fermare il Covid-19. Ora le moschee, che prima erano affollate, sono vuote. I bambini che giocavano schiamazzando nei viottoli sono relegati alle baracche. I mercati a cielo aperto, che ribollivano di vita e attività, sono muti, molti i chioschetti chiusi, alcuni bruciacchiati da un incendio scoppiato qualche notte fa.
La soluzione «temporanea»
Per ora non ci sono contagi, ma la settimana scorsa una signora 65enne di Ramu, un villaggio confinante, è morta di coronavirus. «È impensabile cosa potrebbe accadere se esplodesse qui», dice Mohammed Zobair, un veterano dell’esilio che vive a Cox’s Bazar dal 1992, confinato in quella che doveva essere una soluzione temporanea ed è invece dove i Rohingya nascono, crescono, diventano adulti, si sposano, fanno figli e si spengono. «Se uno di noi lo prende cosa faremo? Moriremo tutti in silenzio. Ci sentiamo inutili, in questo mondo. Non c’è pace, non c’è felicità, non c’è divertimento. I miei sono morti qui, la mia vita finirà qui e anche la vita della prossima generazione finirà qui. Non abbiamo alcuna speranza».
Forse non moriranno tutti in un possibile contagio, ma le stime dicono che in questo contesto 200 mila profughi verrebbero spazzati via. Con 12 abitanti per baracca, non può esistere l’auto-isolamento. «Non siamo in grado di rispettare la distanza sociale, certo che sono preoccupata», dice Noor Hassain, un’altra profuga. Il prof. Azeem Ibrahim, autore di «I Rohingya: dentro il genocidio nascosto della Birmania» è pessimista: «Se qui arriva il virus, si scatena l’inferno. I Rohingya ora devono affrontare un assassino peggiore dell’esercito birmano che li ha cacciati da casa loro».
Ma il temibile Tatmadaw, le forze armate birmane che lottano contro i ribelli musulmani Rohingya dell’esercito di Arakan nella regione al confine con il Bangladesh, Rakhine, non hanno smesso di spingere profughi verso Nord. Ad aprile, l’esercito di Arakan aveva proposto un cessate il fuoco di due mesi per far fronte alla pandemia. Il Tatmadaw ha detto di no, aumentando attacchi aerei e d’artiglieria, ferendo e uccidendo decine di adulti e bambini. Il 22 marzo ha bruciato 700 case nel villaggio di Kyauktaw, facendo scomparire dieci Rohingya. Il 13 aprile l’artiglieria ha colpito il villaggio di Kyauk Seik uccidendo otto civili, compresi due bambini.
Il Bin Laden birmano
Avete presente la guerra del Vietnam? I massacri, le torture, le sparizioni? Quello. L’esercito blocca anche gli aiuti e i viveri per migliaia di persone oltre a impedire l’accesso alle cure mediche. Un adolescente ferito, costretto ad aspettare a un posto di blocco prima di raggiungere l’ospedale, è morto lì, in mezzo alla strada. Un autista dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, alla guida di un pulmino con contrassegni Oms, è stato ucciso a mitragliate. Tutto ciò spinge centinaia e migliaia di neo-profughi a fuggire, aizzati anche dal «Bin Laden birmano», com’è stato rinominato il monaco buddista paramilitare Wirathu: «Non è il momento per la calma. È il momento di reagire, il momento di far ribollire il sangue. I musulmani si riproducono troppo in fretta, ci rubano le donne, le violentano. Vorrebbero occupare il nostro Paese. Ma non glielo permetteremo. La Birmania deve restare buddista».
Il contesto sta peggiorando anche a Cox’s Bazar. La solidarietà tra musulmani s’è ormai incrinata. «All’inizio, tre anni fa, abbiamo accolto i profughi su base umanitaria, lavorando sodo per trovargli cibo, vestiti e ripari. Adesso la situazione è cambiata: sono diventati un peso per la comunità», si lamenta Fazlul Kader, presidente dell’associazione Società Civile Forum.
I profughi che si trasferiscono in città non ricevono più gli aiuti dalle fondazioni internazionali e, non trovando lavoro, scivolano nel degrado. Risultato? Alcuni Rohingya si danno alle rapine, al contrabbando di droga, ai sequestri di persona, al traffico di schiavi, acuendo il conflitto con la comunità locale. Dal 2017 a oggi sono fioccate 585 denunce nei confronti di mille e 300 Rohingya. Alcuni, poi, vendono illegalmente il surplus degli aiuti umanitari, entrando in concorrenza con il commercio locale e innescando risentimento e rabbia.
Nessuno li vuole
Allora si fugge di nuovo all’estero. Un paio di settimane fa, più di 500 Rohingya si sono imbarcati su una flotta di pescherecci con l’intento di raggiungere le coste della Malesia, nazione islamica. Ma le motovedette della guardia costiera malese, dichiarando che ora le frontiere sono chiuse ovunque nel mondo, li hanno ricondotti al largo. Scene che da anni vediamo nel Mediterraneo: passeggeri disperati che bevono acqua di mare, più di 70 morti a bordo, cadaveri gettati tra le onde, ragazzi tra i 12 e 20 anni, alcuni anche più giovani, ridotti a pelle e ossa. In questo momento, centinaia di loro sono da qualche parte nel Golfo del Bengala, alla deriva in due grandi pescherecci, in attesa di soccorsi. Un’imbarcazione più piccola, con 43 Rohingya a bordo, è stata tratta in salvo dopo che s’era incagliata a Sud del Bangladesh. I sopravvissuti sono stati subito trasportati a Bhashan Char, un’isola a tre ore di navigazione dalla costa.
Sì, perché adesso nemmeno il Bangladesh li rivuole. «Non possiamo sempre accollarci le responsabilità di altri Paesi», è sbottato il ministro degli Esteri bengalese, Abdul Momen. Così s’è pensato di trasferire i profughi su un’isola deserta nell’estuario del fiume Meghna per risolvere il problema del crimine, dei conflitti con i locali, dei nuovi esuli e, soprattutto, del rischio contagio da Covid-19. L’inferno si è trasferito su un’Alcatraz a rischio alluvioni e maree, una triste Quarantine Island con difficile accesso a cure mediche e scuole. A riprova, per i profughi musulmani Rohingya, del famoso detto secondo il quale quando s’è toccato il fondo, si può sempre iniziare a scavare.