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 2020  maggio 06 Mercoledì calendario

Le nuove classi sociali

Ora che abbiamo dato un’occhiata al mondo là fuori bisognerà guardare dietro la mascherina. Se la quarantena ha reso familiari vicini di casa che prima salutavamo appena, ha però intaccato la dimensione sociale in senso ampio, ritagliando il quotidiano sull’orizzonte di un terrazzo condominiale. Dove sono gli altri? Dall’università di Berkeley, California, il professor Robert Reich, ex ministro del lavoro di Clinton, studia le proteste che già sfidano le strade americane e profila quattro nuove classi figlie della pandemia: i "remotes", tecnici e professionisti che pur lavorando da remoto hanno mantenuto salario e condizioni di vita, gli "essentials", alias medici e poliziotti ma anche fattorini emancipati dall’emergenza, gli "unpaid", i disoccupati storici più quelli rimasti gioco forza senza un soldo e i "forgotten", l’archetipo dei dimenticati, senzatetto, migranti, sottoproletari urbani e non. Lo spettro che, come il virus, si aggira per il mondo è nuovo e antichissimo: se basta un runner indisciplinato a scatenare l’ira compressa nell’isolamento domestico, quanto ci vorrà per la lotta di classi?
L’Italia, in cima alla classifica dei Paesi più colpiti, aspetta l’onda, un calo del Pil che il Fmi innalza al 9%, un milione di nuovi poveri, 3,7 milioni di persone a corto di cibo, il 40% delle famiglie in condizione di sopravvivere alla fine del lavoro al massimo per 4 mesi.
«Non possiamo parlare di classi in senso novecentesco, perché non hanno omogeneità di confini né consapevolezza di sé, ma di sicuro i nuovi raggruppamenti sociali, sul modello di quanto schematizzato da Reich, saranno portatori di un disagio crescente - osserva lo storico Giuseppe Berta -. E’ come se con il coronavirus stesse giungendo a compimento la scomposizione del ceto medio e del lavoro». Il suo ultimo libro, "Detroit. Viaggio nella città degli estremi", fotografa la dilatazione che, a strappi, ha dissolto la borghesia: «Non c’è dialettica possibile tra gruppi con obiettivi diversi e non organizzabili sindacalmente, ma la vita sociale incasserà nei mesi e negli anni a venire una rabbia più facile da raccogliere a destra che a sinistra».
Quel che resta del materialismo storico è questo conflitto senza conflittualità dai contorni vaghi quanto minacciosi. Materia da maneggiare con cautela, per il sociologo Domenico De Masi: «In ognuno di questi frammenti sociali che gli americani, più attenti alla dimensione psicologica che a quella economica-marxista, chiamano classi, c’è un potenziale di lotta. Ma la classe in quanto tale lo è in sé, per sé e con sé, ossia è consapevole, agguerrita e organizzata. Nel post coronavirus vedo piuttosto i ricchi e i poveri di queste "simil classi" allearsi trasversalmente tra loro».
Se, come ci si ripete per farsi forza attraversando la fase 2, andrà davvero tutto bene è una scommessa, periodo molto ipotetico del secondo tipo. Giovanni Vecchi, consulente della World Bank e docente di storia economica oltre che autore di saggi Laterza sulla povertà, ne dubita assai: «I dati indicano chiaramente che di fronte a uno shock macroeconomico, com’è anche questa pandemia, le implicazioni sul piano distributivo, non sono mai le stesse, vale a dire che il prezzo non lo pagano tutti».
L’aumento delle diseguaglianze che, secondo il professor Vecchi, accompagna una decrescita tutt’altro che felice, portandosi dietro il rischio di «conseguenze anche morali», incombe, a suo dire, molto più cupamente della prospettiva di un’estate senza mare. 
«Questa nuova crisi grava su un ceto medio già fiaccato a livello mondiale, allargando a dismisura la base di chi sta in difficoltà» concorda lo storico Umberto Gentiloni. Alle quattro nuove classi concepite a Berkley, Gentiloni ne aggiungerebbe una quinta, quelli che non possono avanzare né tornare indietro, "gli esodati del coronavirus": «C’è una fascia intermedia di persone per cui riprendere come se nulla fosse successo è impossibile ma altrettanto lo è reinventarsi. Penso a un over 50 impiegato nel turismo, un piccolo imprenditore sempre in movimento: non tutto il lavoro potrà trasferirsi sul web».
La mascherina è quasi una metafora. Si sarebbe tentati di voler prolungare a oltranza questo limbo, precludendosi la fine del tunnel ma anche la scoperta di quello che viene dopo. Ascanio Celestini, l’attore che ha portato alla ribalta la lotta di classe eclissatasi nei libri di storia e che pur assente dalle scene contribuisce in questi giorni al palinsesto digitale del Teatro di Roma, indica la luna senza farsi distrarre dal dito: «Non c’è alcuna coscienza collettiva, c’è invece la consapevolezza delle difficoltà del momento a livello personale, chi è povero sa di esserlo ma non per questo cerca il confronto con gli altri». 
Il distanziamento che ha contenuto il virus, dice Celestini, minaccia ora la società "delocalizzata": «Il cosiddetto "smart work" è una fregatura perché, come insegna lo Statuto dei lavoratori, il lavoro è il luogo di lavoro, dove guadagni lo stipendio ma, interagendo con gli altri, acquisti coscienza dei tuoi diritti». E però, chiosa, se Marx è morto definitivamente di coronavirus, ci sono i fattorini, gli "essentials", quelli che in 2 mesi sono diventati in qualche modo classe: è il loro momento, magari anche politico.