Il Messaggero, 6 maggio 2020
La nuova canzone di Fabio Concato
Era atteso all’Auditorium Parco della Musica per un concerto rinviato al 31 ottobre, ma di questi tempi Fabio Concato, che da sempre attinge a piccoli gesti e storie per fare grandi canzoni, non poteva stare in silenzio. Non è un presenzialista né uno che cavalca le tendenze. Se mette la voce fuori di casa, è perché ha qualcosa da dire. Lo fa a suo modo, con gentilezza e ironia, evitando la retorica, come quasi nessuno al momento riesce, nel brano L’umarell, che dedica agli italiani e pubblica sul suo Facebook e canale YouTube. Parla del dramma in atto, usando la miniatura dell’umarell, l’uomo, spesso pensionato, che osserva cantieri, lavori stradali e manovre di parcheggio, elargendo consigli non richiesti. Con lui, sull’asfalto del jazz, conversa su runner, amici sconsiderati che citofonano per fare un giretto e sul futuro che ci attende. E sdogana questa figura un po’ rompiscatole: «Qui è un consigliere buono che mi ha spronato a reagire» ci racconta l’artista milanese, classe ’53.
La quarantena aveva bloccato la sua creatività?
«Ho ascoltato molta musica ma non riuscivo a comporre. Due settimane fa l’umarello sul leggio sembrava chiedermi: ma non puoi fare niente per questa pandemia? In due ore è uscito il brano. Scrivo solo quando ho bisogno impellente di raccontare».
È nato ora ma ha una forza indipendente dal periodo. Entrerà in scaletta?
«Sicuramente, in versione più curata. Adesso ho registrato la voce al telefono, perché i miei microfoni li avevo regalati a studenti. Poi, in remoto, hanno suonato i miei musicisti».
Canta in milanese, una novità assoluta. Ha scoperto la bellezza del dialetto?
«Ne avevo un gran desiderio perché la Lombardia è la più martoriata e le rendo omaggio. Ho scoperto che, sebbene sia un dialetto duro, è molto musicale. Mi ha fatto venire voglia di terminare un progetto su cui lavoravo».
Quale?
«Cantare il repertorio di Enzo Jannacci, magari coinvolgendo il figlio Paolo».
Nel nuovo disco di Marco Ferradini duettate sulla splendida Cento scalini di Herbert Pagani. Suona come l’amore al tempo del distanziamento sociale?
«I grandi brani sembrano sempre scritti oggi. Pagani è sottovalutato e dimenticato. La memoria va difesa».
Cosa l’ha colpita di questi due mesi?
«Chi se ne è andato da solo, senza un sono qui e ti voglio bene. Forse nemmeno in guerra era accaduto».
Il futuro della musica la preoccupa?
«Sono una persona positiva ma su questo non riesco ad essere ottimista. Non so quando torneranno a lavorare migliaia di tecnici e musicisti che si esibiscono in club e piazze. Non è solo questione economica, è un dolore personale. Guardo lo zaino e mi vengono le lacrime».
Che intende?
«Giro da sempre come uno zingaro. Ho bisogno di incontrare gente e cantare. Le due ore del mio live sono le uniche in cui sono veramente me stesso. La mia voce sono io».
Però nel brano canta Ci cambierà la vita e magari sarà meglio di così.
«Me lo auguro. Sarebbe imperdonabile non imparare la lezione. Dobbiamo ritrovare i valori che ci rendono umani. Che non si ricominci a fare gesti scaramantici quando Greta parla di collasso del pianeta o a ferire gli altri in nome dei soldi».
Non ne parlava già nel 2007 in Oltre il giardino?
«Riconoscere i bisogni veri dai fasulli e mettere le persone al centro sono miei desideri sin da bambino. Ho tanti difetti ma un pregio: il senso di giustizia sociale».