5 maggio 2020
Come funziona un laboratorio di massima sicurezza
Al 99% c’è un wet market all’origine della pandemia. Nei “mercati umidi” dell’Asia si vende selvaggina viva. Gli animali vengono spesso uccisi al momento dell’acquisto, fornendo un’occasione di contagio fin troppo facile. Ma anche l’1% di possibilità merita di essere esplorato. E se nemmeno gli Usa si azzardano a sostenere che il virus è figlio dell’ingegneria genetica – nessun intervento umano è tanto “pulito” da non lasciare tracce, in questo campo – resta aperta la possibilità di un virus naturale studiato in laboratorio e sfuggito dalle maglie pur strette dei centri di “biosicurezza 4": il livello più alto al mondo.
A questa categoria appartiene il Centro di Virologia di Wuhan. Inaugurato nel 2018, è stato il primo laboratorio di livello 4 in Cina. Qui si aggirano uomini in tuta spaziale, alle prese con virus letali e senza cura come Ebola. Da quelle mura, incapsulate in altre mura, non esce nulla, nemmeno l’aria, trattenuta all’interno da una pressione inferiore a quella dell’atmosfera e poi sterilizzata. Le provette con i virus sono protette da capsule infrangibili. Nessuno può entrare senza speciali autorizzazioni, né uscire senza una doccia in grado di uccidere qualunque microrganismo.
Eppure, anche da questa Alcatraz dei virus, qualcuno è riuscito a evadere. Non dal laboratorio di Wuhan (per quanto ne sappiamo). Ma l’esperto di biosicurezza americano Lynn Klotz, del Center for Arms Control and Non-Proliferation, nel 2014 scriveva su Frontiers in Public Health: «C’è una sostanziale probabilità che una pandemia da oltre 100 milioni di vittime possa essere innescata da un’infezione contratta silenziosamente in laboratorio, qualora un operatore diffondesse la malattia circolando in società». Una missione inviata dall’ambasciata americana a Pechino nel 2018 al laboratorio di Wuhan aveva trasmesso a Washington dei rapporti preoccupati, sia per lo scarso addestramento degli operatori che per il rispetto delle regole di sicurezza.
Uno dei possibili buchi nella rete di sicurezza di Wuhan potrebbe riguardare la raccolta dei campioni. In quel laboratorio si studiano infatti coronavirus provenienti dai pipistrelli. I microrganismi sono conservati in una delle più grandi collezioni del mondo. Ricercatori specializzati si addentrano nelle grotte per prelevare campioni di sangue e feci. Li portano poi in laboratorio, li analizzano e li custodiscono. Se all’interno del centro di virologia si seguono i massimi standard di sicurezza, nulla assicura che questo avvenga anche fuori, e che i ricercatori adottino tutte le precauzioni mentre catturano i pipistrelli in natura.
Un altro germe di dubbio l’ha insinuato la rivista medica The Lancet, in uno dei primi articoli sulla nuova malattia il 24 gennaio. Fra i primi 41 malati registrati negli ospedali di Wuhan, 13 non avevano avuto contatti diretti con il mercato umido della città, incluso il “paziente uno” del coronavirus. È molto probabile che l’infezione circolasse già da parecchio tempo nella regione, e che i primissimi casi siano sfuggiti al controllo. Ma il dubbio potrebbe restare, accanto alla mancata conferma dell’animale intermediario fra il pipistrello e l’uomo. È probabile che il coronavirus abbia compiuto il salto di specie passando dal pangolino, o che sia arrivato direttamente dal pipistrello. Ma anche qui non abbiamo certezze al 100%.
Sono invece certi gli incidenti avvenuti in passato nei laboratori di massima sicurezza. Jonathan Quick, epidemiologo dell’Oms e della Duke University, ne fa un rapido elenco nel suo libro The End of Epidemics. Nel 2014 un laboratorio dei Centers for Disease Control (Cdc) dello Utah spedisce per posta come fossero biglietti di auguri campioni vitali di antrace a una serie di laboratori negli Usa e nel mondo. Lo stesso anno, rovistando in un magazzino di un laboratorio a Bethesda, si riscoprono vecchie provette piene di vaiolo. Il virus, dopo 60 anni, era ancora vivo. Nello stesso annus horribilis in cui negli Usa si registrarono 230 incidenti con virus o batteri pericolosi, un laboratorio americano che si occupa di ricerca in campo agricolo chiede ai Cdc dei campioni di influenza. Stupiti dal comportamento strano del virus, gli esperti di agraria si accorgono che si tratta di influenza aviaria, potenzialmente letale per l’uomo.
Nel 2009, sempre in un laboratorio dei Cdc, la doccia di decontaminazione obbligatoria prima dell’uscita dei ricercatori non scatta. Non scattano nemmeno le serrature delle porte a chiusura ermetica, e l’allarme della depressurizzazione inizia a suonare. Lo scenario da “incidente atomico” per fortuna si risolve senza danni. Non come nel 1979 in Russia, quando dal laboratorio militare di Sverdlovsk una fuga accidentale di antrace causa la morte di (ufficialmente) cento persone. L’ultimo caso di vaiolo al mondo, nel 1978, fu provocato da un errore di laboratorio in Gran Bretagna. Così come da una provetta inglese è nata l’epidemia animale di “foot and mouth” del 2007. All’epoca della Sars (tra 2002 e 2003) un paio di focolai in Cina hanno avuto probabilmente origine dagli operatori di un centro di ricerca, che hanno portato l’infezione fra i loro contatti.
Mentre nel 2014 si susseguono le notizie di incidenti, intanto, il mondo scientifico si divide sul concetto del cosiddetto gain of function. È giusto – ci si chiede – prendere virus innocui per l’uomo, modificarli geneticamente e fargli acquisire nuove funzioni? Come per esempio infettare la nostra specie? Lo scopo è scientifico: studiare i meccanismi del salto di specie e del contagio fra gli uomini per poi mettere a punto una cura. Ma il nodo della sicurezza dei laboratori resta cruciale, se si vuole continuare a dormire sonni tranquilli.
L’operazione di gain of function viene effettuata nel 2011 sul virus della Spagnola, recuperato da un cadavere conservato da un secolo nel permafrost in Alaska. Il dibattito divide gli scienziati per mesi. Ma alla fine si decide di andare avanti. E in un esperimento di cui abbiamo parlato tanto in queste settimane, un coronavirus adattato ai topi viene “arricchito” di una proteina presa dai pipistrelli che lo rende capace di trasmettersi all’uomo. Lo studio viene condotto nel 2015 all’università della Carolina del Nord con tutte le garanzie e pubblicato su NatureMedicine. Ma vi partecipano, oltre all’italiano Antonio Lanzavecchia che fornisce gli anticorpi da testare contro il microrganismo, anche dei ricercatori dell’istituto di Wuhan. Questo basta a dare nuovo slancio ai complottismi. E le domande sull’origine della pandemia oggi non arrivano solo dall’ostile Washington, ma anche dai più pacati governi di Germania, Australia, Svezia e dall’Unione Europea.