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 2020  maggio 04 Lunedì calendario

La prima intervista di Boris Johnson dopo la malattia

Johnson
Corriere della Sera
Boris Johnson ha descritto l’attimo in cui ha visto in faccia la morte, e ha ammesso: «Sono un uomo incredibilmente fortunato».
Il premier britannico ha riferito di aver vissuto in uno stato di negazione rispetto alle sue condizioni di salute per oltre una settimana da quando era risultato positivo al test per il coronavirus, e confessa di non aver provato eccessiva preoccupazione neanche quando gli è stato imposto il ricovero in ospedale.
Ma la reale gravità della malattia gli è parsa chiara, in tutta la sua brutalità, quando è stato collegato ai monitor e trasferito nel reparto di terapia intensiva.
Il primo ministro ha raccontato a The Sun on Sunday che «tutte quelle maledette spie continuavano ad andare nella direzione sbagliata», e a quel punto si è reso conto che non esistono cure per il Covid-19. «Mi sono accorto che la mia situazione continuava ad aggravarsi», ha aggiunto, «e ricordo ancora di essermi chiesto, “Ne uscirò vivo?”».
In una lunga e commovente intervista, il premier ha condiviso un resoconto assai vivido delle sue ore più buie, quando si è ritrovato in balia del virus assassino.
Nella prima intervista rilasciata dopo aver rischiato di morire, Boris Johnson rivela di aver consumato «litri e litri» di ossigeno, prima di essere trasferito in terapia intensiva; di come i dottori hanno dovuto affrontare la difficile decisione se collegarlo a un respiratore oppure no, visto che le sue possibilità di farcela erano stimate al «50%»; dei piani specifici elaborati nell’eventualità che si fosse dovuto annunciare il suo decesso alla nazione; di come, malgrado il progressivo aggravarsi delle sue condizioni, non si sia mai rassegnato alla possibilità di morire, e di come ancora oggi non riesca a immaginare come abbiano fatto «gli eroi ammirevoli del servizio sanitario nazionale inglese» a salvargli la vita.
Seduto nel suo ufficio al numero 10 di Downing Street, Boris Johnson ha le lacrime agli occhi al ricordo di quelle due settimane drammatiche, durante le quali ha rischiato di perdere la sua vita, riprendendosi appena in tempo per assistere alla nascita di una nuova, quella del suo ultimo figlio, Wilfred.
Prosegue: «A dire il vero, i medici avevano già predisposto tutta una serie di interventi se le cose si fossero messe davvero male. Non presentavo un quadro clinico particolarmente favorevole, perché il livello di ossigeno nel mio sangue continuava a scendere. Ma è grazie alle cure di infermieri veramente eccezionali che sono riuscito a farcela. Sono stati loro a salvarmi la vita, a fare la differenza. Non riesco a spiegare come sia successo. Non saprei dire, ma è stato bellissimo vedere…». Gli trema la voce. Gli occhi arrossati, Boris Johnson fa una pausa per prendere un respiro profondo, e continua: «Non posso fare a meno di commuovermi, è stato davvero straordinario». Il premier britannico, 55 anni, ammette che sulle prime ha sottovalutato la gravità dell’infezione, anche quando il tampone è risultato positivo al coronavirus, verso la fine di marzo.
Si è messo in isolamento nell’appartamento soprastante il suo ufficio a Downing Street, mantenendo le distanze dalla fidanzata incinta, Carrie Symonds, ma ha continuato a lavorare con i ritmi incalzanti di sempre. Ricorda: «Ho sottovalutato la situazione, ero in uno stato di negazione, il lavoro era pressante e ho continuato a tenere incontri via video. È vero, però, che cominciavo a sentirmi debole e stordito, non lo nego. Non ero più in grado di reggermi in piedi – come i postumi di una sbornia, ma diverso, non so come spiegarlo: stavo davvero molto male».
Si interrompe bruscamente e mi fa una domanda: «Ma lei l’ha passata, questa cosa? Mi raccomando, prenda tutte le precauzioni per starne alla larga. Non avevo difficoltà respiratorie, ma non riuscivo a scrollarmi di dosso quel senso di profonda debolezza. E non miglioravo. I dottori si sono impensieriti, quando hanno visto che i miei valori continuavano a peggiorare». «A quel punto mi hanno imposto il ricovero presso l’ospedale di St. Thomas. Ma in tutta sincerità, io proprio non volevo andarci, in ospedale. Non mi sembrava una buona idea, ma loro sono stati inflessibili. Col senno di poi, hanno fatto benissimo a insistere. Lì ho ricevuto tutte le cure del caso e sono rimasto davvero colpito nel vedere in prima persona l’altissimo livello dell’assistenza che viene prodigata ai malati. Mi sono sentito molto fortunato».
Johnson ha percorso il breve tragitto fino all’ospedale, al di là del ponte di Westminster, accompagnato da due guardie del corpo. Dopo una rapida valutazione clinica, gli è stato somministrato l’ossigeno tramite un tubicino al naso. In brevissimo tempo, però, si è resa necessaria una maschera per incrementare la somministrazione di ossigeno. Col passare delle ore, il suo quadro clinico ha cominciato ad aggravarsi e, racconta, «si è spaventato» quando, il giorno successivo, è stato trasferito in terapia intensiva.
Nelle sue parole: «A un certo punto sono stati costretti a somministrarmi una quantità davvero impressionante di ossigeno. Mi hanno applicato una maschera a tutto il volto, in modo da consentire il passaggio di un volume di ossigeno molto maggiore. Per diversi giorni, ho consumato decine di litri di ossigeno. La situazione però si è aggravata il lunedì. Mi sono reso conto delle mie reali condizioni quando mi hanno trasferito in terapia intensiva. Ero pienamente lucido e oltremodo consapevole di quanto stava accadendo. Il momento peggiore è stato quando i medici hanno fatto un consulto per decidere se intubarmi oppure no, le possibilità erano 50-50. Quello è stato il momento in cui mi sono leggermente…”. Johnson si interrompe per riprendere fiato, lo sguardo turbato. Poi aggiunge con un fil di voce: «Hanno cominciato a chiedersi come avrebbero comunicato il mio decesso alla nazione. È stata dura, non lo nego».
Il premier confessa di essersi trovato faccia a faccia con il pensiero della morte forse per la prima volta nella sua vita. Era stato ricoverato in ospedale in diverse occasioni in passato, di solito per infortuni legati al rugby, ma niente a che vedere questa esperienza. «Mi sono rotto il naso, il dito, il polso, mi sono rotto le costole. Quasi tutte le ossa, in alcuni casi ripetutamente. Ma non mi sono mai trovato ad affrontare una cosa del genere, di questa gravità».
«Mai prima d’ora. Ricordo di aver provato una grandissima frustrazione. Non capivo perché non stavo migliorando. Mi sentivo incredibilmente provato e avvilito perché tutti quei maledetti valori continuavano a peggiorare, e a quel punto ho capito, “Non ci sono farmaci per il Covid, non ci sono cure”».
«E in quel momento esatto mi sono chiesto, “Come farò a uscire vivo di qui”?». Johnson sapeva benissimo a quali pericoli andava incontro, se fosse stato sottoposto a coma farmacologico e collegato a un respiratore. Ma ha lottato per respingere il terrore di essere giunto alla fine, grazie alla sua «incredibile resilienza e positività».
Ci tiene a ribadirlo: «In nessun momento ho ceduto alla disperazione e pensato, “Dio mio, è proprio finita”. Una straordinaria forza interiore mi ha convinto che tutto sarebbe andato bene, che ce l’avrei fatta. Ma la frustrazione era al massimo. Ricordo di aver visto attorno a me altri pazienti, che entravano e uscivano dalla terapia intensiva. Dopo tre notti, grazie all’intervento miracoloso dell’equipe medica, sono stato trasferito nel reparto generale, senza aver più bisogno di ossigeno. Mi sento fortunato, perché tanti altri hanno sofferto infinitamente più di me».
E prosegue: «Voglio sottolineare questo fatto. Ci sono persone che conosciamo, che si trovano ancora attaccate ai respiratori, in coma. Tanti hanno sofferto per questa pandemia, tante famiglie ancora oggi temono per la vita dei loro cari. Tanti hanno perso i propri familiari. Perciò se lei mi chiede se sono motivato dal desiderio di porre fine alle sofferenze dei miei concittadini, la risposta è sì, assolutamente sì. Ma sono motivato anche dal desiderio impellente di rimettere in piedi questo Paese, di ritrovarlo in buona salute e capace di andare avanti con le sue forze. E sono sicuro che ce la faremo».
David Wooding
(traduzione di Rita Baldassarre)
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