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 2020  maggio 05 Martedì calendario

Virus, detenuti in libertà forzata

Il Brasile ne ha rilasciati 30mila, la Malesia altrettanti, l’Indonesia è arrivata per ora a 18mila ma intende raggiungere presto quota 30mila. Le Filippine sono vicine a 10mila. L’Iran, dal canto suo, ha precisato di averne liberati 85mila, quasi metà di tutta la sua popolazione carceraria. Quanto alla Turchia, il governo di Ankara ne ha rilasciati 45mila e in giugno si prepara a liberarne altre 45mila (anche se i prigionieri politici restano dietro le sbarre). Perfino il Myanmar avrebbe rimesso in libertà 30mila prigionieri. 
Che sia l’Asia, le Americhe, l’Africa o l’Europa, la pandemia di coronavirus sta alleggerendo le popolazioni carcerarie di molti Paesi. La lunga lista dei rilasci, degli sconti o delle amnistie include decine di Stati. Non poteva essere altrimenti. Coronavirus e sovraffollamento nelle carceri costituiscono un connubio esplosivo. Le carceri sono spesso un habitat congeniale allo sviluppo di pericolosi focolai pronti a diffondersi con forza, attraverso il personale penitenziario, anche al di fuori delle mura. 
«Il sovraffollamento nelle carceri e le pessime condizioni igienico-sanitarie riscontrate in molti Paesi – spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia – costituiscono un’autostrada per la diffusione del Covid 19».
D’altronde sono almeno 125 i Paesi nel mondo ad avere un sistema carcerario sovraffollato. Venti Paesi ospiterebbero addirittura il doppio dei detenuti rispetto al numero originariamente concepito. «Certo, si parla spesso di sovraffollamento. Meno del fatto che il numero eccessivo di detenuti sia formato da una percentuale abnorme di persone ancora in attesa di un processo.In Russia su mezzo milione di carcerati sono il 19%.Amnesty chiede a tutti i governi il diritto alla presunzione di rilascio», continua Noury.
Ad aggravare un quadro già molto preoccupante vi è sovente un altro connubio: povertà e regimi autoritari. L’allarme di Human Rights Watch sullo stato delle carceri nella martoriata Repubblica democratica del Congo è solo uno dei numerosi, e tristi, casi. C’è un «grave rischio di diffusione dell’epidemia di Covid-19», ha dichiarato Hrw. In queste prigioni definite «insalubri e sovrapopolate» Hrw teme che vi sia il rischio di «un’ecatombe». 
Il virus che ha messo in ginocchio l’economia planetaria, contagiando ufficialmente tre milioni e mezzo di persone e uccidendone quasi 250mila, sta provocando dunque la liberazione di centinaia di migliaia di detenuti.
Ma quali saranno gli effetti di queste decisioni,che in molti casi appaiono inevitabili? E chi sono questi detenuti? Ogni Paese segue i suoi criteri. Ma si tratta per lo più di scarcerazioni definite “temporanee”. E a essere rilasciati per primi sarebbero – il condizionale è d’obbligo considerano che gli annunci provengono anche da molti regimi – persone che hanno scontato buona parte della pena, condannati per reati meno gravi o che hanno oltrepassato una certa età. A volte minorenni. La temporaneità del rilascio è tuttavia un concetto piuttosto labile considerando il periodo eccezionale, il settore,e i soggetti coinvolti.Il Regno Unito ha scarcerato 5mila detenuti munendoli di braccialetti elettronici. «Ma Paesi come Venezuela, Brasile o regimi mediorientali non dispongono di sistemi per monitorare gli spostamenti di una tale massa di detenuti. Peraltro sappiamo molto poco dei detenuti liberati.In alcuni soggetti l’ipotesi di recidive o di fuga resta reale» spiega da Londra Sauro Scarpelli, vicedirettore delle campagne di Amnesty International.
Certo ci si domanda se davvero non escano anche pericolosi delinquenti. In Afghanistan, per esempio, il presidente Ashraf Ghani ha promesso che avrebbe rilasciato 30mila persone dalle carceri – un’enormità – lasciando dietro le sbarre i pericolosi jihadisti. Ma sarà vero? Chi potrà realmente controllare che non vi siano detenuti pericolosi tra i 4mila liberati in Etiopia, o tra i 1.700 in Nicaragua o tra i 4.200 del Sudan?
Un dato, pressoché certo,purtroppo ricorre costantemente. A restare dietro le sbarre sono sempre gli stessi, gli ultimi, le persone innocenti ma ritenute dai regimi che li hanno incarcerati più pericolosi di feroci criminali: ovvero quelli che Amnesty definisce i prigionieri di coscienza. «Ancora una volta a pagare il prezzo più alto sono i prigionieri di coscienza, persone che non hanno commesso un crimine ma imprigionati spesso solo per le loro opinioni o per le loro attività sul fronte dei diritti umani. Sono esposti a un grave pericolo sanitario», continua Scarpelli.
Proprio ieri Amnesty International ha così diffuso un manifesto per la loro liberazione immediata. Sottolineando come il sovraffollamento e la mancanza di servizi igienico-sanitari in molti centri di detenzione del mondo renda impossibile l’adozione di misure di protezione dalla pandemia, come la distanza fisica e il lavaggio regolare delle mani. «L’ingiustificata detenzione mette queste persone ancora più in pericolo», ha precisato Scarpelli.
I regimi da sempre pensano prima di tutto alla propria sopravvivenza. Ai loro occhi è meno preoccupante liberare anche pericolosi criminali, legati al crimine organizzato e potenzialmente capaci di recidive, piuttosto che liberare i prigionieri di coscienza. Scarcerarli significherebbe liberare le idee che li hanno portati in carcere. 
Al di là dei prigionieri di coscienza, e della loro drammatica vicenda, il coronavirus ha dunque riportato l’attenzione sul problema delle carceri. Divenute pericolosi focolai quasi dappertutto. Eppure, quasi ne trascurassero la pericolosità, fino a poco fa diversi governi hanno effettuato davvero pochi tamponi all’interno degli istituti penitenziari. Quello che sta avvenendo in Brasile, per esempio, resta un mistero.
Il gigante del Sudamerica ha la terza popolazione carceraria del mondo, 772mila detenuti, eppure ne avrebbe sottoposti a tampone solo 682. «In Brasile il sovraffollamento nelle carceri è gravissimo (+168% del numero concepito, ndr). Molte persone finiscono in prigione e rimangono per anni prima che il processo venga celebrato», precisa Scarpelli.
Ma a figurare nella lista dei “poco virtuosi” vi sono anche Paesi occidentali. Come gli Stati Uniti. La loro popolazione carceraria è la più grande del mondo: 1,2 milioni di detenuti. Eppure in questo Paese, che sta pagando il prezzo più alto nel mondo in termini di vite umane,i tamponi eseguiti nelle carceri sono del tutto inadeguati. 
Un dato rilasciato due settimane fa dal Bureau of Prisons parla molto chiaro: su 2.700 tamponi effettuati (i detenuti che scontano una pena nei centri federali sono 150mila) ne sono risultati positivi quasi 2mila, in altri termini più del 70%. Se si dovessero sottoporre a tampone più detenuti i risultati sarebbero facilmente immaginabili.
Se si vuole fermare il contagio fuori dalle prigioni, occorre fermarlo primo dentro. Ridurre il sovraffollamento è certo un primo passo. Ma certamente non il solo.