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 2020  maggio 05 Martedì calendario

Il mito del Piano Marshall nell’Italia del dopoguerra

«Anche io aiutare visi pallidi di Francia e Italia!». Il cinegiornale della Settimana Incom del 5 dicembre 1947, con uno strepitoso capo sioux dal viso rugoso e incorniciato nel kostoweh, il copricapo di lunghe penne d’aquila dei pellirosse, è un documento straordinario. Che spiega meglio di un libro di mille pagine come fu costruito il mito del Piano Marshall. Quello tanto invocato nella storia della politica italiana e più ancora nelle ultime settimane. 
Un mito lanciato giorni prima da un altro documentario, una leccornia oggi consultabile con tutti i vecchi cinegiornali nell’archivio dell’Istituto Luce. Voce impostata. Plasmata dal Ventennio: «Questa tribuna è una stazione ferroviaria di tipo eccezionale. Da qui parte il Treno dell’amicizia. L’iniziativa è venuta da Hollywood che non manca di macchine da presa per documentare il fatto. Ha funzionato da capostazione il governatore della California Earl Warren. Questo treno è destinato ad alleviare la carestia in Italia e in Francia. Hollywood ha voluto che ai Re Magi dell’oriente si aggiungessero quest’anno i Re Magi dell’Occidente. Re Magi in ferrovia. Ad ogni stazione si aggiungono nuovi vagoni: zucchero, grano, calorie per il nostro inverno. Cowboys e sceriffi questa volta figurano in un commovente western dell’umana solidarietà». Irresistibile la chiusa: «Gli americani sentono spontaneamente la solidarietà per l’antica patria Europa donde si sono mossi i loro progenitori. Molti sono stati recentemente soldati in Francia e in Italia. Ricordano la nostra ospitalità affettuosa. La ricambiano ora in amicizia. Grazie Joe!» 
Quanto fosse spontaneo o sollecitato quell’accorrere ad ogni stazione di trattori stracarichi di prodotti agricoli, camion stracarichi di scatolette di cibo, ragazzini stracarichi di lentiggini e allegrissime majorette col bastone e le divise luccicanti, non si sa. Certo la regia hollywoodiana, travasata nei servizi dell’epoca, fu magnifica. Come potevano gli italiani affamati e contusi tra le macerie, dopo una guerra sbagliata e perduta, non lasciarsi catturare dall’entusiasmo per quel treno che solcava le praterie aggiungendo sempre nuovi vagoni pieni zeppi di aiuti? 
L’Italia fotografata dalla Commissione parlamentare sulla miseria del 1951, quando già andava un po’ meglio rispetto all’immediato dopoguerra, aveva una famiglia su tredici che non consumava mai (mai: neppure una volta l’anno) zucchero, vino e carne. Una su quattro (per l’esattezza il 24,1 per cento) che viveva in «case sovraffollate, tuguri o grotte». Per non dire delle «abitazioni senza latrina» nel 95 per cento delle valli di Comacchio e nel 99 per cento della borgata Gordiani a Roma. Pietro Nenni sospirava angosciato nel diario: «Grave è il problema del pane» proseguendo agli sgoccioli del 1946: «Abbiamo grano al massimo fino a gennaio». Scriveva mesi dopo Alcide De Gasperi: «La prima necessità, oggi, è garantire il pane ai lavoratori. Fa presto l’onorevole Nenni a dirci che non dobbiamo accettare i prestiti americani. Il grano gli Stati Uniti ce lo regalano e coi miliardi che ricaviamo dalla vendita di esso all’interno, finanziamo le nostre opere di assistenza. Il piano Marshall è una questione di vita o di morte». L’aria era tale, racconterà sul «Corriere» Guido Vergani, che alla vigilia delle elezioni del 1948 il comunista Giancarlo Pajetta invocò «un movimento di massa tanto esteso che anche le vecchiette settantenni gettino i loro pitali sulla testa di De Gasperi». Prova provata che la rissosa volgarità di troppi politici italiani di oggi non era poi così assente in altri momenti drammatici. 
Immaginatevi ora l’arrivo a Genova del primo bastimento carico di novemila tonnellate di viveri raccolti con il mitico treno, in particolare grano grano grano. Nel quale uno scaricatore entusiasta affondava la mano fino al gomito. Folla in festa sulle banchine, bandiere, gagliardetti, ministri e ambasciatori. Voce fuori campo: «Furono bionde spighe in America, sono per noi forza dell’oggi e fede nel domani!». E su tutti i muri i manifesti blu sui quali spiccava una pagnotta bianca: «Il pane che noi mangiamo: 60 per cento di farina americana inviata gratuitamente». E poi le foto delle famiglie col pacco americano («Care Usa») posato sul tavolo da cui grandi e piccini tiravano fuori di tutto: riso e caffè e barattoli di sugo e tavolette di cioccolata... Era l’America! L’«America allegra e bella/ America sorella» cantata in quella struggente canzone dei nostri emigrati... 
Tutto regalato, come ricorda qualche memoria un po’ storta mugugnando sulla Ue che «è invece tirchia e non regala niente»? Mah... La questione è divisiva da decenni. Il 5 giugno 1947, all’università di Harvard, il segretario di Stato George Marshall, spiegò: «La situazione economica mondiale è molto grave. Nel considerare le esigenze della ricostruzione europea sono state esattamente valutate le perdite di vite umane, le distruzioni, ma è ormai chiaro che esse sono meno gravi dello sconvolgimento dell’intera struttura dell’economia europea». Occorreva dunque «spezzare il circolo vizioso e dare alle popolazioni europee la fiducia nell’avvenire economico dei loro Paesi». Insomma: «La nostra politica non è diretta contro alcun Paese o dottrina, bensì contro la fame, la miseria, la disperazione o il caos». Il tutto in «funzione antincendio», per dirla con Averell Harriman, direttore dell’Erp, l’European Recovery Program: bisognava spegnere le fiamme del comunismo prima che accendessero certi Paesi a rischio. Come? Offrendo a tutti, come agli italiani spaccati tra social-comunisti e democristiani, «la via americana al benessere comune ed al progresso». 

Furono così prodotti, scrive lo storico David W. Ellwood, autore de L’Europa ricostruita. Politica tra Stati Uniti ed Europa occidentale 1945-1955 (il Mulino), «decine di documentari, centinaia di programmi radio, migliaia di spettacoli cinematografici mobili, milioni di opuscoli dell’Erp». Non bastassero, spiega Mattia Pellecchia nello studio L’amico americano. Il Fondo Usis e la propaganda del Piano Marshall, c’erano «concerti dell’Erp e le gare di componimento dell’Erp, le competizioni d’arte dell’Erp e gli spettacoli di varietà alla radio dell’Erp, i treni Erp e i cerimoniali Erp». 
E «in tutti i film emerge un messaggio chiaro: tutti i problemi si possono risolvere grazie agli aiuti Erp, al Piano Marshall e all’intervento degli Stati Uniti. La costruzione dell’acquedotto risolve il problema dell’acqua di un paese dell’Italia meridionale; un disperato disoccupato a Trieste viene assunto dalla raffineria Aquila, ricostruita grazie al denaro e ai macchinari inviati dagli Stati Uniti tramite l’Eca; un bambino, dopo avere risparmiato a lungo i guadagni del suo lavoro, può comprarsi un carillon...». E a farla corta passa «l’idealizzazione di una società americana in cui tutto funziona, tutti lavorano, tutti hanno una casa, tutti vivono bene…». 
È il grande sogno americano. Un sogno collettivo. Immaginifico. Che colora tutto a tinte pastello. E penetra a fondo nella società italiana: anche tu puoi avere la lavatrice, il frigorifero, l’asciugacapelli... Comprare fustini e dentifrici. Riempire le dispense. E finalmente masticare il chewing gum. Dice tutto una piccola pubblicità su un giornale milanese dell’epoca. Titolo: «Bomba americana. Diverte un mondo!». E accanto alla figurina di un adulto e di un bambino impegnati a gonfiare due bolle spropositate, si spiega: «È un grosso squisito bonbon, masticandolo si fanno tanti palloni. Chiedetene uno nelle pasticcerie, nelle drogherie, latterie ecc. Rimarrete contenti!». Memorabile una nota: «Dura sempre». Il chewing gum perenne. E quando mai ci è capitato di essere tanto stregati dall’Europa?