la Repubblica, 5 maggio 2020
La storia di Olga Ivinskaja, amata da Boris Pasternak
Il signor Aleksej Aleksandrovi? Surkov, grigio burocrate travestito da romanziere, aveva pianificato ogni cosa nel dettaglio. Bisognava solo aspettare la sepoltura di Boris Leonidovi? e poi sarebbe stato un gioco da ragazzi scaricare le colpe su quella poco di buono di madame Ivinskaja e di sua figlia Irina. Tutto il mondo doveva sapere che Pasternak era stato assunto nell’Olimpo sovietico. E che il caso Ž ivago – la pubblicazione in Italia e in Occidente di quella “pacchianata” sospettabile d’eresia – era stato solo un miserabile incidente provocato da Olga, la sua amante. Bastava pazientare qualche mese, i compagni del Kgb erano stati avvertiti.
La mattina del 16 agosto del 1960 la polizia segreta bussa alla porta di Olga Ivinskaja, 48 anni, una bellezza luminosa e morbida che comincia ad appannarsi nell’ovale sempre più slabbrato. Alla fine di maggio era morto il suo amato Borja, il romanziere che aveva ritagliato sul suo viso e sul suo cuore ferito il drammatico personaggio di Lara. Al dolore s’era aggiunta la mortificazione di non potersi neppure avvicinare alla dacia di Peredelkino dove la moglie Zidaina vegliava sul malato. Eppure era lei, non Zidaina, la compagna adorata oltre che Musa, incontrata nel 1946 nella redazione di Novyj Mir. Di questo legame profondo sapevano anche le autorità sovietiche: nel 1949 non avevano avuto scrupoli nel chiudere Olga in un campo per estorcerle false confessioni sulla dissidenza di Pasternak. Ne sarebbe uscita solo nel 1953, dopo la morte di Stalin, traumatizzata. Al suo “eroismo” e alla sua “fermezza” lo scrittore confesserà di dovere la vita. Ed è anche per questa sua abnegazione che, un mese prima di morire, Boris decide di nominarla erede letteraria dei suoi diritti all’estero. “Il Testamento” era l’atto formale con cui Madame Ivinskaja – agli occhi del mondo colto occidentale – sarebbe stata riconosciuta come l’esecutrice delle sue volontà. Se non impalmata in vita, almeno legittimata in morte come “sposa letteraria”.
Al “Testamento” pensò Olga quando quella mattina aprì la porta ai poliziotti. Sapeva che grazie alla delega avrebbe potuto esercitare i suoi diritti. Ma sapeva anche che poteva costituire un atto di accusa, essendosi impegnata con la Procura dell’Urss a «interrompere i suoi rapporti inopportuni con elementi stranieri». Come aveva fatto a essere così ingenua? L’aveva consegnato ai compagni italiani indicati da un emissario di Giangiacomo Feltrinelli, i coniugi Garritano, i quali l’avrebbero dovuto mettere nelle mani sicure dell’editore. E invece. Le hanno detto che durante una gita nel Caucaso il “Testamento” è scomparso. Prima Pino ha parlato di una valigia persa. Mirella ha fatto accenno a una festa danzante che li ha distratti dal pacco, lasciato in albergo. Mentono entrambi, pensava Olga. Il “Testamento” è passato nelle mani sbagliate. Il suono del campanello non la coglie di sorpresa. La condanna a otto anni di lavori forzati, prima in Siberia, poi in un campo a cinquecento chilometri da Mosca, arriva come una punizione in fondo attesa.
Dov’era finito il “Testamento” di Pasternak? A raccontarci questa nuova puntata della spy story sentimentale al tempo della guerra fredda è Paolo Mancosu, il filosofo matematico dell’università di Berkeley che prosegue nella infaticabile ricerca negli archivi Feltrinelli, Russell, George Kathov Papers (Pasternak e Ivinskaja, Il viaggio segreto di Živago, Feltrinelli, che raccoglie il precedente volume Živago nella tempesta e il nuovo saggio Mosca ha orecchie dappertutto. Nuove indagini su Pasternak e Ivinskaja ). È Mancosu a evidenziare che il famoso “Testamento”, con cui Olga si sarebbe potuta difendere dall’accusa di “traffico illecito di valuta”, era stato sequestrato dal Kgb. E infatti non ve n’è traccia nelle carte del processo.
All’indomani della scomparsa di Pasternak, per Olga cominciarono giornate piene d’angoscia. Le sue lettere a Feltrinelli restituiscono lo stato d’animo di una donna braccata, consapevole che con il poeta è venuta meno anche l’unica protezione possibile. «Mi raccomando, si muova con spaventosa cautela: pensi a quanto è terribile ogni cosa qui da noi», scrive all’editore italiano a cui vuole consegnare una parte importante del lascito letterario. Ma alla prima valigia di rubli consegnatale incautamente da emissari di Feltrinelli scatta l’operazione di polizia. Di Olga e di sua figlia Irina spedite ai lavori forzati ci resterà un lungo silenzio. Ma parlano al loro posto i più bei nomi della cultura internazionale – da Bertrand Russell a Graham Greene, da Simone de Beauvoir a Jean-Paul Sartre – impegnati in un lavoro di diplomazia clandestina.
La nuova ricerca di Mancosu rivela che, nel backstage della storia ufficiale, si svolse una campagna di pressioni su Krusciov che mantenne il carattere di segretezza: l’idea condivisa dall’opinione liberal internazionale, almeno in una prima fase, era che uno scandalo pubblico sarebbe stato rovinoso per le due prigioniere. E che bisognava aiutare i russi a salvare la faccia. Tra gli artefici più attivi è Isaiah Berlin, che affida a una missiva – ora pubblicata integralmente – la testimonianza più illuminante su tutta la vicenda. Nel febbraio del 1961 l’intellettuale britannico è costretto a confrontarsi, nel corso di un convegno nel Sussex, con il malvagio Surkov, responsabile dei rapporti internazionali dell’Unione degli scrittori sovietici. Surkov ha sempre detestato Pasternak. È stato lui a premere sul “rinnegato” perché rinunciasse al Nobel. Ora però vuole annettere l’odiato avversario nel Pantheon di regime, a spese della povera Ivinskaja. «Ma lei ha idea di chi sia la donna con cui sta simpatizzando?», urla Surkov all’orecchio di Berlin. «Una sudicia sgualdrina. Una bugiarda. Una doppiogiochista impegnata a sovvertire le politiche morali dell’Unione Sovietica. Ma come vi viene in mente di gridare allo scandalo perché una squallida prostituta, che peraltro ha traviato un genio facendogli scrivere il libro peggiore – quella pacchianata del dottor Živago –, finisce in manette per ricettazione di valuta rubata, 100 mila dollari mandati da quel pappone di Feltrinelli tramite spie infiltrate in Russia».
Dietro le quinte opera anche l’editore italiano che, tramite Togliatti, compie verso il segretario del Pcus un gesto di “disarmo unilaterale”, inviandogli cinque lettere autografe di Pasternak. I suoi rapporti con Mosca si erano interrotti dopo la pubblicazione di Dottor Živago. E ora con la donazione spera di allievare la sorte di Ivinskaia e della figlia. «Un atto di grazia», scrive a Pietro Secchia il 12 ottobre del 1961, «darebbe ai sovietici il vantaggio di chiudere in bellezza la polemica con i circoli di Londra e Parigi», che altrimenti rischia di inasprirsi.
Otto mesi più tardi, nel giugno del 1962, viene liberata la giovane Irina. E due anni dopo esce dal campo anche Olga, ancora più smarrita della figlia e quasi incredula davanti a tanto accanimento. La sua colpa è stata difendere la voce di Pasternak in Occidente. Morirà a Mosca a 83 anni, sempre grata al destino per averle riservato un posticino accanto al suo Borjuša. E fino alla fine mai un’ombra di risentimento nello sguardo, come rassegnata alla “prigione del tempo”.