il Fatto Quotidiano, 5 maggio 2020
Biografia di Kim Jong-un
Il giovane Kim Jong-un – che ci ha appena preso in giro con l’ennesima trovata planetaria di sparire per riapparire – discende direttamente dal nonno divino, più o meno come il nostro John Elkann. Ma invece di giocare in cameretta con i giornali di carta e le automobiline, maneggia testate nucleari a medio e lungo raggio, minaccia il mondo con il suo esercito di 1,2 milioni di soldati robot e affama la sua intera nazione, 23 milioni di disgraziati, prigionieri nella misteriosa e bellissima Repubblica democratica della Corea del Nord. Che tiene nascosta al mondo, proprio come fa – di quando in quando – con la sua sorte. È malato? È morto? Ma no, sta benissimo. Scherzava.
Quando l’altro giorno è ricomparso davanti a un nastro rosso da tagliare, con forbici e fanfare al seguito, quasi nessuno al mondo se n’è rallegrato. Il quasi comprende due campioni della nostra politica: Antonio Razzi, che tra un viaggio romantico e l’altro a Pyongyang, imita Crozza in televisione. E Matteo Salvini, che ha sempre un debole per i dittatori tagliagole, purtroppo senza condividere la loro medesima fortuna dei pieni poteri. Visitò la Capitale nel settembre del 2014 e ne tornò entusiasta: “Non c’è una cartaccia per terra, non c’è Internet: un paradiso”. Chissà se gli avevano anche fatto vedere la parte più esclusiva del paradiso, i campi di detenzione dove spariscono a migliaia gli oppositori, tutti circondati da un elegante filo spinato con mitragliatrici e vedove.
Ma se il nostro Salvini è solo un capitano credulone in felpa, Kim è un generale a quattro stelle, anzi “Maresciallo della Nazione, “Presidente supremo”, “Sole splendente”, nonché “Genio tra i geni”, come lo incensa il regime che dal 2011 gli garantisce obbedienza assoluta, pena la morte, e financo il premio annuale di “uomo più elegante dell’anno”. Purtroppo fuori dai suoi confini gli appellativi cambiano. I sudcoreani, che condividono 284 chilometri di confine disseminato di mine, carri armati e bunker, lo chiamano Crazy Kim, il pazzoide. Per le diplomazie internazionali è Chubby Brat, il marmocchio paffuto. Mentre il suo amico Donald Trump lo ha battezzato The Nut Job, lo svitato. A parte l’arsenale missilistico di cui dispone e che a ondate bipolari scaglia nel mar del Giappone, di lui si sa poco più dell’essenziale. È nipote del “Presidente eterno” Kim Il Sung, il fondatore, generato dal monte sacro Paektu, dunque divino, sebbene comunista di ortodossia marxista-leninista, spolverato dalla farina del sacco rivoluzionario cinese. Ed è figlio di Kim Jon Il, il “Caro leader”, che ebbe tre mogli, l’ultima una ballerina giapponese che mise al mondo l’Erede in una data ancora controversa, forse nel gennaio del 1982, oppure del 1983. Allevato nel lusso dei palazzi segreti, il piccolo Kim ha trascorso l’adolescenza nei collegi svizzeri sotto le mentite spoglie di figlio di un impiegato dell’ambasciata coreana. Salvo che nella casa di Berna aveva un cuoco, un tutor, una guardia del corpo, un autista che lo accompagnava a scuola su una fiammante Mercedes 600, la più grande di gamma.
I compagni di scuola lo hanno descritto come diligente, introverso, appassionato di basket e Playstation, non un ragazzino memorabile, salvo la ricchezza e l’appetito. Per la laurea in Informatica ha prudentemente scelto l’università militare di casa, intitolata al nonno e governata dal padre, promosso a pieni voti.
L’ascesa al potere è rapida e spietata. Secondo i dossier dei servizi segreti occidentali cinque dei sette dignitari che trasportano la bara del padre, spariranno o moriranno nei mesi in cui Kim perfeziona la sua nuova squadra di fedelissimi. A cominciare dallo zio che fa arrestare durante il comitato centrale, trascinato via in manette, poi fucilato, insieme ad altri alti ufficiali, da un plotone che per liquidarli usa mitragliatrici antiaeree.
Le armi sono la sua passione. Nei molti omicidi politici che costellano il suo regime compaiono, oltre alle ordinarie fucilazioni, corde, coltelli, un lanciafiamme, una muta di cani affamati. Il più spettacolare è l’uccisione del fratellastro, avvelenato il 23 febbraio 2017, da due agenti incuranti delle telecamere dell’aeroporto internazionale di Kuala Lumpur, Malesia, usando una dose letale di gas nervino.
Secondo gli analisti americani che lo studiano con la pazienza degli entomologi, è “capriccioso, lunatico, cattivo”. Vive nel perfetto isolamento della sua corte. Si sposta su treni privati e blindati. Mai in aereo. Ha una intera brigata di agenti addetti alla sua sicurezza, compresi gli assaggiatori. Ma è capacissimo di farsi del male da solo. Fuma due pacchetti di sigarette Yves Saint Laurent al giorno. Beve troppo whisky. Mangia troppo, specialmente fois gras. Pesa 130 chili e a 36 anni è già ammalato di diabete.
Fino al lisergico incontro con Donald Trump, a Singapore, 12 giungo 2018, con scambio di insulti e poi abbracci, pochissime persone straniere sono state ammesse al suo cospetto: il suo idolo del basket Dennis Rodman, Kenji Fujimoto un cuoco di sushi giapponese che ha servito per anni in casa del padre, il presidente cinese Xi Jinping che gli copre le spalle e il deficit, in cambio delle molestie all’America.
Il solo legame speciale esibito è con la sorella Kim Yo-jong, 31 anni, che pare sappia fronteggiare i suoi eccessi d’ira e che lui ha spedito tra i nemici della Corea del Sud, sorridente, gentile, imperscrutabile, nei panni di capo delegazione ai Giochi olimpici invernali del 2018.
Massimo esperto in paranoia, Kim non si trova poi così male nel nuovo paesaggio internazionale delle democrature, visto che a forza di minacciare il mondo è passato dalla cronaca nera a quella diplomatica. Armandosi ha chiesto il disarmo della Corea del Sud e la fine delle sanzioni americane. Ha mangiato il famoso hamburger con il suo nuovo amico Donald. E negli stessi giorni ha sperimentato la sua nuova bomba all’idrogeno. Dunque non è malato, non è morto. Ma soprattutto non scherza affatto.