il Fatto Quotidiano, 5 maggio 2020
Il documentario su Michele Obama su Netflix
Ovvietà: “Essere la First Lady è stato il più grande onore della mia vita”. Identità: “Vengo dal South Side di Chicago, non serve sapere altro”. Consapevolezza: “Per molti io e Barack eravamo una provocazione”. Concomitanza: “Io sono la ex First Lady degli Stati Uniti e anche la discendente degli schiavi”. Sorpresa: “Capisco chi ha votato Trump e chi non ha votato”. Futuro: “C’è un altro capitolo che mi aspetta là fuori”. Tutte le religioni monoteiste hanno un libro, e quella di Michelle Obama non fa eccezione: Becoming, il memoir best-seller del 2018. Oltre ai dieci milioni di copie vendute c’è di più: un tour di presentazione di enorme successo, con 34 date – partenza da Chicago nel novembre 2018 fino a toccare l’Europa – ed eco duratura. Occasione troppo ghiotta per non sfociare in un documentario: diretto da Nadia Hallgren, l’omonimo Becoming arriva domani 6 maggio sulla piattaforma Netflix, con cui gli Obama nel maggio 2018 hanno firmato un contratto pluriennale per la realizzazione di serie, doc e reportage tramite la loro Higher Ground Productions.
La costruzione del consenso, se non l’agiografia, detta ogni inquadratura, ma i motivi di interesse non latitano. Per esempio, la musica: se già il libro poteva vantare una soundtrack ad hoc, The Michelle Obama Musiaqualogy, creata da Questlove, qui Barack raggiunge la consorte on stage paragonandosi a Jay-Z con Beyoncé, mentre Michelle ascolta Drake, The Weeknd e Kendrick Lamar (Pray for me), Frank Ocean (Godspeed). L’avvenire da dj è assicurato, la metafora musicale rivendicata: “Sono totalmente io, unplugged per la prima volta”. Tra palco e realtà, intervistatori illustri (Oprah Winfrey, Stephen Colbert) e platee estatiche, staff (in netta prevalenza bianco) e pubblico (a stragrande maggioranza nero), Becoming inquadra un gigantesco book tour nato “per riflettere su cosa mi è accaduto”, con una certezza: “Non si tratta di tornare alla strada precedente, ma di crearne una nuova”. S’intende, senza eludere roots e famiglia: la madre e il padre adorato morto troppo presto di sclerosi multipla, il fratello che le faceva ombra, almeno nel cuore di mammà. Tenendo fede al titolo, ecco il divenire, e il diventare: dal South Side a Princeton, che a detta di un’insegnante sarebbe stato troppo, e lo fu in un certo senso, giacché una madre inorridita dalla presenza di Michelle fece cambiare stanza alla figlia, bianca. Poi, Barack: lei pensava all’amore, lui “alla disparità di reddito o al destino delle persone di colore”. Michelle dovette farsi forza, “era uno tsunami, sarei stata spazzata via, se non avessi percorso la mia strada”, e trovare una “voce in grado di pareggiare quest’uomo supponente”. La nascita delle figlie, Malia (1998) e Natasha (2001), cambiò molte cose: “Non ero pronta”, confessa, e “dovetti calmierare le mie aspirazioni”. Fecero ricorso a un consulente matrimoniale: Michelle vi barattò la certezza di essere “perfetta, è lui il problema” con quella “che la mia felicità non dipende da lui che mi rende felice”. Una consapevolezza costruita in sala fitness: “Lui andava in palestra, e io: ‘Come fai a trovare il tempo per allenarti?’. Ebbene, ho smesso di chiedermelo, e ho iniziato ad andarci anch’io”. Sarebbero arrivati i comizi elettorali, gli attacchi a mezzo stampa, gli otto anni alla Casa Bianca, ed è Storia.
Oggi il credo politico di Michelle Obama è la vulnerabilità: “Be vulnerable. Dare to be vulnerable”, nel lockdown rimpiange gli abbracci e invita a preservare “l’empatia, è la nostra linfa vitale. È ciò che ci porterà dall’altra parte”. Ma il suo Become lascia un dubbio: e se il prossimo libro dell’ex First Lady fosse la Bibbia su cui giurare da primo presidente donna degli Stati Uniti?