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 2020  maggio 04 Lunedì calendario

L’addio al petrolio sarà più lungo

La transizione energetica verso un modello sostenibile sarà una delle vittime della pandemia? Anche per l’energia, e la lotta al cambiamento climatico, gli scenari sono stravolti dall’effetto-coronavirus. E dalla depressione in cui il mondo sprofonda in conseguenza delle restrizioni, i vari lock-down, shut-down. La concatenazione può essere micidiale. Da una parte il crollo dei consumi, la paralisi dei trasporti e di molte attività economiche, ha scatenato un contro-shock petrolifero che altera violentemente gli equilibri di prezzo a favore delle energie fossili.
D’altra parte i cieli azzurri di Pechino e New York, Los Angeles e Milano, Parigi e Berlino, suggeriscono un accostamento micidiale: lotta all’inquinamento uguale disoccupazione e impoverimento di massa. Sia sul fronte dei costi sia sulla percezione politica, il coronavirus rischia di sferrare un colpo tremendo alla transizione energetica. Xi Jinping ha già congelato diverse misure per la riduzione delle emissioni di CO2, per dare la priorità alla crescita: ritorno al carbone, che in Cina è abbondante e costa poco. Donald Trump ha dato un’ulteriore accelerazione alla deregulation ambientale, smantellando quel che resta dell’eredità di Barack Obama. La logica è la stessa. Stiamo entrando in una “restaurazione fossile”? Di certo s’impone una constatazione: gli annunci di morte del petrolio erano prematuri. Ancora per un po’ di tempo questa materia prima continuerà ad accompagnare la storia del capitalismo.
Dall’iperinflazione fabbricata dal cartello Opec nel 1973-77 alla deflazione post-2008, il petrolio ne ha viste tante di montagne russe. “Oro nero”, questa energia fossile ancora essenziale ci ha sempre raccontato le vicende dell’economia mondiale, l’alternarsi di boom e recessioni, le trasformazioni nella mappa geopolitica, i rapporti di forze tra le potenze. Eppure il 20 aprile è riuscito a stupire anche gli esperti più navigati. L’ultimo crac petrolifero ha polverizzato in pochi istanti tutti i record precedenti. Il barile di greggio a “meno 37 dollari”, con un tracollo del 300% in poche ore e la caduta sotto lo zero, è un fenomeno che ancora non si era visto, nella storia pur movimentata di una materia prima che accompagna da oltre un secolo i cicli del capitalismo moderno.
Il corto circuito speculativo
Certo, la speculazione finanziaria ha avuto un ruolo decisivo in questa aberrazione. In particolare un singolo fondo d’investimento, è bastato a creare quello schianto sui mercati. Per la precisione un Etf (Exchange Traded Fund, cioè un fondo quotato in Borsa) che si chiama United States Oil Fund, sigla USO, e da solo era riuscito ad accaparrare il 25% di tutti i contratti future sul greggio texano in consegna a maggio. Il fondo Etf USO sapeva che quei contratti con promessa di consegna a maggio sono diventati una maledizione, pezzi di carta che nessuno vuole possedere: gli acquirenti tradizionali come le compagnie aeree hanno le flotte a terra, e il troppo greggio estratto non si sa più dove metterlo, i depositi sono pieni, chiunque ne riceve la consegna deve parcheggiarlo da qualche parte in perdita.
Così si è verificato il cortocircuito speculativo, l’impazzimento del prezzo, quando a New York il barile di greggio della qualità West Texas Intermediate veniva regalato al compratore, con in più un dono di 37 dollari perché lo accettasse. Ma i giochi della speculazione fanno leva su squilibri dell’economia reale. Dove la depressione globale è già cominciata, e ha fatto crollare i consumi di ogni genere di energia. Lo stesso mercato dei future scommette che in autunno la ripresa ci sarà. Ma l’autunno è lontano, e le previsioni sono tutte degli azzardi, in questa fase. La certezza è che il motore dell’economia mondiale è fermo, e quindi non ha bisogno di carburante. Ancora una volta tocca al petrolio fungere da termometro per misurare la salute dell’economia, e in questo momento la diagnosi è terribile.
Sembra impossibile, eppure solo sette mesi fa credevamo di essere avviati verso lo scenario opposto. Il 14 settembre 2019 il mondo tremava per il pericolo di un’iperinflazione energetica. La causa: l’ennesima eruzione dell’ancestrale conflitto tra le due potenze rivali del Golfo Persico, l’Arabia saudita e l’Iran. Quel giorno un attacco di droni iraniani riuscì a devastare un pezzo d’infrastruttura petrolifera saudita, provocando un ammanco nella produzione mondiale. Più i timori di guerra, magari con il coinvolgimento degli Stati Uniti. Quel giorno il barile di greggio salì del 15%, fino a 70 dollari. Oggi vale meno di un terzo.
 
La roulette russa
Esiste una razionalità economica che possa spiegare fluttuazioni così esorbitanti? La finanza amplifica a dismisura questi movimenti, ma dietro la speculazione ci sono sempre delle cause reali. All’inizio del 2020, proprio mentre il coronavirus comincia a paralizzare l’economia cinese, due dei maggiori produttori mondiali sono in affanno. La Russia ha un’economia da Terzo mondo, non è mai riuscita a modernizzarsi, e si aggrappa alla rendita energetica. In Arabia saudita tutto il progetto modernizzatore del tirannico Mohammed bin Salman poggia sui conti dell’ente di Stato Aramco, i cui bilanci vacillano paurosamente se il petrolio continua a calare.
Così tra gennaio e marzo, mentre la pandemia dilaga, si assiste a una folle guerra dei prezzi fra Mosca e Riad. Sottovalutando la “tempesta perfetta” che si sta addensando sull’economia mondiale, Putin e il principe saudita giocano alla roulette russa. Ciascuno cerca di mettere in ginocchio l’altro, aumentando la produzione e spingendo i prezzi sempre più giù. Alla fine dovrà intervenire come mediatore Donald Trump, preoccupato dei fallimenti che già falcidiano i produttori americani di “shale oil”. Troppo tardi. La pace tra Russia e Arabia saudita siglata sotto gli auspici di Washington è del tutto insufficiente. I tagli di produzione concordati tra Mosca e l’Opec arrivano troppo tardi.
Il tracollo della domanda
La sovrabbondanza di greggio estratto negli Stati Uniti – che fino all’anno scorso era un elemento di forza dell’economia americana, di cui Trump si vantava – oggi contribuisce al tracollo delle quotazioni e mette in ginocchio molti produttori. Il contro-shock petrolifero crea problemi drammatici sia di prezzi che di infrastrutture: in Texas, Louisiana, Oklahoma e dintorni, non c’è più spazio letteralmente per immagazzinare nuovo greggio. Solo sul mercato americano, il consumo di carburanti fossili per auto, camion e aerei è sceso del 31% da metà marzo. Il crollo della domanda mondiale è tale che l’offerta dovrebbe essere ridotta di 15 o 20 milioni di barili al giorno. Perciò non bastano i tagli di produzione concordati fra l’Opec e la Russia, che devono togliere dal mercato 9,7 milioni di barili al giorno.
Tutti coloro che auspicano l’abbandono delle energie fossili potranno festeggiare una catena di fallimenti tra i petrolieri, a cominciare dagli attori dello “shale oil” americano. Ma per le energie rinnovabili ci sono altrettante minacce all’orizzonte. Tra gli ultimi atti audaci per accelerare la transizione energetica, va ricordato il piano della Commissione europea su un Green New Deal, nonché sulla carbon tax che dovrebbe penalizzare le importazioni ad alto contenuto di CO2, cioè una forma di protezionismo verde. L’uno e l’altra rischiano di essere messi nel congelatore, in una fase in cui l’agenda è dominata dall’irruzione di altre priorità.