https://www.lettera43.it/coronavirus-donald-trump-elezioni-usa-unione-europea/, 2 maggio 2020
Dopo il virus l'Ue può essere demolita dalla rielezione di Trump
Non risulta che un altro segretario di Stato americano abbia mai definito il proprio presidente «un maledetto imbecille», ma lo faceva nel luglio del 2017 Rex Tillerson, l’amministratore delegato di ExxonMobil chiamato da Donald Trump sei mesi prima a dirigere la diplomazia americana.
COLUI CHE SI RITIENE A VERY STABLE GENIUS
Varie testimonianze, raccolte in un libro-ritratto su Trump intitolato A Very Stable Genius, autodefinizione coniata da Trump medesimo, e uscito nel gennaio 2020, confermano che Tillerson emise il suo verdetto subito dopo una lunga riunione al Pentagono, organizzata per dare al capo della Casa Bianca un quadro completo di che cos’era il sistema militare, di intelligence e diplomatico americano. A spiegarlo al presidente erano convenuti i massimi esponenti di quella che Ben Rhodes aveva definito con ironia the blob, la bolla, gente pensosa racchiusa in un mondo autoreferenziale e fasullo.
FORTE SPIRITO ANTI-EUROPEO
Rhodes, il principale consigliere diplomatico di Barack Obama assurto molto in fretta dal ruolo di speechwriter a quello di stratega, fu tra l’altro autore dell’illuso e illusorio discorso del Cairo sulle “Primavere arabe” (giugno 2009). E fu l’anima degli ondeggiamenti obamiani in politica estera, alla ricerca del nuovo che avanza, con scarso interesse per l’Europa ma neppure, va detto, lo spirito anti-europeo che anima Trump e i suoi più potenti e munifici sostenitori.
QUEL GIUDIZIO NETTO: «HE’S A FUCKING MORON»
«Io voglio vincere, e con gente come voi non andrò mai in guerra», diceva quel giorno del 2017 Trump a generali ammiragli diplomatici e grandi spioni, parole grosse per un renitente alla leva del Vietnam dette a una platea dove molti avevano combattuto davvero. «Siete degli ingenui e dei pupi». Gelo in sala. Tillerson fu l’unico a parlare. Da sempre fiero di avere un padre veterano del Pacifico e uno zio con tre turni in Vietnam, disse: «Non è vero. Signor presidente, lei sbaglia completamente». E alla fine, appena uscito Trump, il giudizio: «He’s a fucking moron», è un maledetto imbecille.
L’EUROPA SI GIOCA MOLTO, COME NEL 1952
Ma occorre essere realisti: a oggi, nonostante vari sondaggi, è possibile che sia lui ancora fino a tutto il 2024 il presidente degli Stati Uniti. Questo fucking moron si ripresenta fra 6 mesi per un rinnovo del mandato presidenziale e mai da oltre 80 anni l’Europa ha avuto una posta in gioco così alta in una elezione presidenziale americana. Ci fu qualcosa di simile nel 1952, non nel voto che oppose Dwight Eisenhower ad Adlai Stevenson per la successione ad Harry Truman, ma nella precedente scelta del candidato repubblicano, a lungo contesa a Eisenhower dall’isolazionista Robert A. Taft, contrario a suo tempo alla partecipazione americana nella Seconda guerra mondiale e – su questo la Storia lo ha in parte riabilitato – contrario a impegni americani in Vietnam. Aveva molti dubbi anche sulla Nato. Ed era, ma solo per questi aspetti e in un contesto e con motivazioni assai diverse, un precursore di Trump, al quale però non rassomigliava affatto quanto a stile e correttezza.
SISTEMA DI LEGAMI ECONOMICI SENZA PARI AL MONDO
L’Europa, tutta l’Europa compresi anche Svizzera e Norvegia che non fanno parte dell’Ue (i norvegesi sono però nella Nato) crea con gli Stati Uniti, e senza che il trumpismo sia riuscito a cambiarlo, un sistema di legami economici, interscambio di beni e servizi e investimenti incrociati assolutamente senza pari al mondo. L’interscambio dell’Ue con la Cina è nettamente inferiore a quello Ue-Usa e anche per gli Stati Uniti il primo mercato mondiale è in Europa, confermando così sul piano commerciale una realtà che dura da oltre un secolo. In più, è dal 1949 che la credibilità difensiva, in termini strategici, dei Paesi europei è affidata in toto o in parte all’ombrello Nato, cioè in modo rilevante agli Stati Uniti.
LA STRATEGIA DI DONALD: DEMOLIRE L’UE
L’importanza del voto presidenziale del 3 novembre 2020 sta nel fatto che Trump si muove come se questa realtà fosse solo un fastidio e andasse cancellata. Parte essenziale della sua strategia, se esiste oltre alle sue idiosincrasie e ai suoi istinti, è demolire l’Unione europea e questo fa parte di un disegno più ampio di demolire tutto quanto costruito dagli anni di Truman, e di Roosevelt se si fanno bene i conti, in poi. Ora, il mondo non resta fermo, gli Stati Uniti non sono più gli stessi, Mosca non ha più uno strumento ideologico come il comunismo per far avanzare la sua politica estera espansionistica, c’è la Cina di Pechino con le sue ambizioni e il suo potere. E soprattutto non c’è più da tempo negli Stati Uniti in politica estera quel consenso cosiddetto liberal che ha consentito a partire da Truman a 11 presidenti e mezzo (il mezzo è Obama che, pur essendo altra cosa da Trump, ne ha anticipato in politica estera alcune caratteristiche), di mantenere la “grande strategia” postbellica.
AZIONI ISPIRATE SOLO DALL’INTERESSE NAZIONALE
Molto è cambiato, ma non tutto. Il dibattito americano, vivacissimo anche in questi giorni, è fra chi dice che alcuni tratti vanno salvati a partire dal rapporto speciale con l’Europa e chi dice che il tutto va profondamente rivisto, senza più una “grande strategia” completa, solo azioni ad hoc ispirate dall’interesse nazionale, ma intese in senso lungimirante. Trump va ben oltre, e dice che sono tutte storie per “sciocchi e pupi”. Ancora il 22 aprile accusava gli europei, senza nominarli direttamente, di stare «a prendere in giro» gli Stati Uniti. Quanti americani sono con lui?
PENSIERO CHE DISCENDE DAL NAZIONALISMO PURO
Non si può certo liquidare l’uomo dicendo solo che è un imbecille e occorre ammettere che non viene dal nulla e rappresenta un filone di pensiero, o di istinto, ben presente da fine Ottocento, nazionalismo puro, e che si cristallizzò una prima volta subito dopo la guerra ’14-18. Allora i nazionalisti isolazionisti, che avevano combattuto contro l’ingresso in guerra del Paese nel 1917, riuscirono a far saltare per aria la diplomazia postbellica avviata da Woodrow Wilson e la sua Società delle Nazioni. Lo stesso filone isolazionista si arrese solo 20 anni dopo di fronte all’attacco giapponese di Pearl Harbour. E ha sempre contestato tutto o in parte l’edificio della politica estera bipartisan creato a partire dal 1947 sul piano strategico-diplomatico, e dal 1944 (Bretton Woods) su quello diplomatico-economico.
MA WALL STREET NON FU MAI ISOLAZIONISTA
In realtà Wall Street non fu mai isolazionista, e la finanza americana giocò da subito e pienamente le carte che la fine del dominio finanziario e monetario britannico le pose in mano a partire dal 1915, e fu in parte l’ispiratrice del grande disegno postbellico che, dal Piano Marshall (l’Europa di Bruxelles nasceva come iniziativa parallela al Piano) alla Nato a altro ha segnato i rapporti con l’Europa. Quell’Europa che molti esperti americani di politica estera continuano a definire “la perla” del sistema di alleanze americano, un sistema da valorizzare dicono, perché è quello che fa la differenza fra Washington da un lato e Pechino e Mosca dall’altro, queste ultime autocrazie senza particolari amici nel mondo.
PUÒ BATTERE BIDEN ANCORA CON I VOTI ELETTORALI
Trump potrebbe benissimo vincere come ha vinto nel 2016, tre anche quattro milioni di voti popolari in meno di Joe Biden, ma sufficienti voti elettorali che, nel sistema americano, sono come noto quello che conta. Ne 2016 furono sufficienti 80 mila voti popolari nei collegi giusti, con il Wisconsin come Stato-chiave seguito da Michigan e Pennsylvania. E ugualmente questi tre Stati saranno determinanti nel 2020. Trump ha alcuni punti di forza: la lealtà di molto voto repubblicano; l’appoggio della working class bianca, soprattutto gli uomini fra i 45 e i 65 anni; il fatto che Joe Biden, oltretutto quasi ottantenne, non è un trascinatore di folle; e infine i punti deboli di Biden in genere, tra cui la difficoltà per lui di raccogliere bene i voti della sinistra democratica, e le imprese manageriali azzardate di suo figlio Hunter, su cui Trump farà certo leva. Ha perso però l’asso nella manica di un’economia florida, e la pandemia evidenzia la debolezza della sua visione nazionalista.
RIPENSAMENTO DELLA STRUTTURA PRODUTTIVA AMERICANA
Biden, dicono vari esperti, dovrà puntare al voto della classe operaia, che è il suo ambiente familiare di origine, e puntare sulla pandemia per rovesciare il paradigma e convincere che solo i democratici possono avviare quel ripensamento della struttura produttiva americana che metta il Paese al riparo dagli eccessi di una globalizzazione di cui democratici e repubblicani insieme sono responsabili. Ci riuscirà? America first significa America alone.
EPPURE NEGLI ANNI 80 THE DONALD NON ERA AFFIDABILE
Prima di Tillerson, e senza usare parole esplicite come moron, molti altri sono arrivati alle stesse conclusioni su Donald Trump. Un episodio inedito risale ai primi Anni 80 e riguarda una delle storiche banche d’investimento di Wall Street, Brown Brothers Harriman&Co, sangue blu e a cavallo tra finanza e diplomazia. Un gruppo di giovani assunti da poco e freschi di business school stava lavorando alacremente al finanziamento di un’impresa immobiliare, quella di Donald Trump. Una mattina si trovarono sulla scrivania una lettera, firmata da alcuni partner, comproprietari cioè della Brown, in cui venivano ringraziati per l’impegno, ma anche avvertiti che la casa non gradiva fare affari con quel signore.