La Stampa, 4 maggio 2020
Stare tante ore davanti allo schermo non fa male
«Stai troppe ore con i libri in mano, fila a giocare col tuo tablet». Forse così è un po’ esagerato, ma a sbriciolare una delle più granitiche certezze interiorizzate dai genitori dall’Atari in poi, e cioè che faccia male al giovane passare ore e ore davanti a uno schermo, arriva ora uno studio dell’Università dell’Ohio: tutto questo non impatta affatto sulle capacità cognitive e su quelle relazionali. Anzi, i nativi social, quelli che sono nati quando Facebook esisteva, già hanno maturato nuove competenze. Confortante, specie oggi che il mondo è chiuso in casa ed è facile capire con cosa riempiono i ragazzi le ore vuote.
Lo studio, pubblicato sull’American Journal of sociology ha messo a confronto bambini che hanno cominciato l’asilo nel 1998 con quelli che ci sono andati nel 2010. Sorpresa, le valutazioni sulle capacità dei due gruppi sono simili: i bambini hanno grossomodo la stessa facilità nel fare amicizia, nel gestire i conflitti e nel mantenere l’autocontrollo. In qualche caso i più giovani sono anche più espansivi e diretti. In realtà questo studio non è così rivoluzionario. La psicoterapeuta Viola Nicolucci, specializzata in nuove tecnologie con bambini e adulti, da anni va dicendo che non bisogna demonizzare tecnologie, schermi e videogame. «Negli ultimi anni è cambiata l’abitudine con la tecnologia e la popolazione fa fatica ad integrarla, amplificando il cosiddetto panico morale. I genitori sono spaventati dalla possibile nascita di dipendenza o asocialità nei propri figli e cercano di far vivere ai più giovani quella che è stata la loro esperienza, ovviamente più distante da certi dispositivi. I problemi, però, non dipendono dalla quantità di ore che si trascorrono di fronte ad uno schermo». E non sono così diffusi: il gaming problematico non supera il 3% di popolazione mondiale.
I videogiochi possono diventare una strategia di compenso in caso di frustrazione, ma anche avere molti effetti positivi: «L’Oms in questo periodo di emergenza ha anche messo in discussione le sue indicazioni sul tempo di utilizzo: sono una buona strategia per passare il tempo in quarantena. Insegnano valori e stimolano la mente. La realtà è che dalla tv ai social, dai videogames a qualsiasi tipo di piattaforma, l’intrattenimento può essere attivo e non solo passivo». La chiave è stare vicini ai più giovani mentre hanno un dispositivo in mano, o comunque stimolarli. E l’assist lo fornisce proprio la quarantena: «Anche i genitori sono a casa e possono rendersi conto di che tipo di utilizzo dei dispositivi abbia il figlio, ridimensionando le paure. Vedendo come ci si rapporta e non quanto, magari giocando con loro anche se spesso l’adulto si sente inadeguato. Spirito di competizione ed entusiasmo sono naturali, a volte anche una sana aggressività. Ma se continua a giocare anche quando è stufo, potrebbe essere un campanello d’allarme. In quel caso meglio rivolgersi a psicoterapeuti o ai medici di base».
Molti genitori restano scettici, notando comportamenti diversi dopo qualche ora passata di fronte ad uno schermo. Come Valentina Gallo, responsabile di uno spazio per musica e intrattenimento giovanile a Torino e madre di due figlie di 15 e 12 anni: «In questo periodo è inevitabile essere più connesse. Guardano tanti film, con l’opzione di Google per farlo in contemporanea con gli amici: questo non mi preoccupa. Invece i social, quando mi rendo conto che rispondere ad un messaggio dopo 5 minuti diventa un problema, sì». Manuel Marino, invece, è un videogiocatore e suo figlio è ancora troppo piccolo per iniziare. Però, non lo terrà lontano dalle consolle: «Gliela farò provare io stesso. Insegna a ragionare in modo diverso, crea vocazioni come raccontare storie e poi scriverle. E a me hanno insegnato l’inglese più di certe lezioni».