La Stampa, 4 maggio 2020
Ripubblicato Il Dialogo delle lingue di Sperone Speroni
L’editore Tallone propone in un suo prezioso raffinatissimo volume, in soli 144 esemplari composti a mano, impressi su carta pregiata, postfazione di Carlo Ossola, il Dialogo delle lingue di Sperone Speroni (1500-1588), il grande intellettuale, allievo di Pietro Pomponazzi, figura di riferimento per tutto il mondo rinascimentale, fondatore delle celebre Accademia degli Infiammati, un organismo importante anche per ciò che riguarda l’illustrazione e la difesa della nostra lingua.
Il Dialogo è un’opera centrale nel dibattito cinquecentesco. Se n’era già accorto Leopardi quando nello Zibaldone meditava sulla «capacità e nobiltà e degnità ed efficacia e ricchezza e potenza e possibilità di crescere» ch’ebbe l’italiano letterario nel Cinquecento. Il libro di Speroni ebbe molto successo: principiò a circolare manoscritto nel 1530, fu pubblicato nel 1542 a Venezia dai figli di Aldo Manuzio, e per la sua modernità e ampiezza di vedute ebbe grande risonanza in Europa, in Francia soprattutto, quando oltralpe si rilanciò il dibattito sulla lingua nazionale di fronte a un latino che continuava a permanere come lingua della cultura e delle scienze (il Dialogo fu difatti in più punti ripreso, quasi alla lettera, nella Deffence, et illustration de la langue françoyse di Joachim du Bellay).
Sulla scena si avvicendano sei personaggi, schierati chi a favore delle lingue classiche e chi della lingua materna. Dibattono vivacemente Pietro Bembo, Lazzaro Bonamico, il grecista Giovanni Lascaris, il Peretto (Pietro Pomponazzi); un Cortegiano e uno Scolare fanno da spalla ai primi attori. L’umanista Lazzaro Bonamico difende il latino: «se l’huomo è in piazza, in villa, o in casa col vulgo, co’ contadini, co’ servi, parli volgare et non altramente; ma nelle schole delle dottrine et tra i dotti, ove possiamo et debbiamo esser huomini, sia humano, cioè latino, il ragionamento». Tra i sostenitori di una lingua viva e di programmi di divulgazione del sapere troviamo naturalmente il Pomponazzi, che non si scandalizza neppure di un eventuale Aristotele tradotto magari in lombardo o mantovano, che per Lascaris sarebbe come un arancio o un olivo trapiantato da un orticello ben coltivato in un bosco di rovi.
Tocca a Bembo l’autorevole difesa della nostra lingua materna, che ormai gli appare robusta, già ben «regolata» intorno a una norma di base «toscana», avviata finalmente verso il raggiungimento di quella «perfezzione lungamente disiderata e cercata». E si lancia in discorsi appassionati e quasi profetici, pensando a quando l’italiano rigermoglierà con rinnovati fiori e frutti, e avremo nuovi Petrarca e nuovi Boccaccio: ai nostri autori grandi del futuro vedremo consacrare «non tabernacoli, ma tempij et altari, alla cui visitatione concorrerà da tutte le parti del mondo brigata di spiriti pellegrini, che le faranno lor voti, et saranno esauditi da lei». Ormai la lingua greca e la latina già sono «giunte all’occaso, né quelle esser più lingue, ma charta solamente et inchiostro».
Anche il Cortegiano è dalla parte delle lingue «vive», valorizza in particolare il parlato ed è contrario all’inattuabile proposta di un’adozione del latino lingua «morta»: non funzionerebbe che all’interno di una città abitata soltanto da letterati. L’ultimo personaggio, lo Scolare, ha il compito di riportare il dialogo avvenuto tra Lascaris e Pomponazzi, il quale tra il resto pare qui anticipare posizioni polemiche che nel secolo dei Lumi saranno largamente diffuse. Si spinge a dire che «lo studio della lingua greca et latina sia cagione dell’ignorantia, ché se ’l tempo che intorno ad esse perdiamo si spendesse da noi imparando philosophia, per avventura l’età moderna generarebbe quei Platoni, et quegli Aristotili, che produceva l’antica», mentre noi «altro non facciamo, diece et venti anni di questa vita, che imparare a parlare chi latino, chi greco» per ritrovarci poi sfiancati e stanchi per apprendere a dovere una lingua veramente viva e vitale.
Il Dialogo dello Speroni si impone dunque come opera di singolare vivacità tra posizioni contrapposte, e attuali alcune, quando accoglie attraverso le voci dei dialoganti l’idea che la lingua è un organismo sempre in movimento, che «vive, respira»; lascia anche intendere che della lingua come elemento di coesione e unità gli italiani del Cinquecento hanno bisogno addirittura più che della loro libertà da influenze straniere; e soprattutto costituisce una testimonianza molto significativa di come nel nostro Paese le questioni intorno alla lingua, da Dante a oggi, siano costantemente da considerare come dibattiti profondi, non sterili discussioni tra grammatici, ma terreno di scontro tra differenti visioni del mondo e della realtà sociale, oscillazioni tra nostalgie del passato e ascolto delle esigenze di una cultura nuova.