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 2020  maggio 04 Lunedì calendario

Un mondo di debiti

A farsi meno problemi di tutti è stato, come al solito, Donald Trump: ha aperto i rubinetti e, insieme al Congresso, ha avviato un gigantesco programma di aiuti pubblici. Così, a fine anno, secondo stime ancora provvisorie, il deficit statale americano raggiungerà quota 15% rispetto al prodotto interno lordo. Nemmeno gli altri governi però sono stati timidi: di fronte all’emergenza coronavirus hanno schiacciato il pedale della spesa: secondo i dati del Fondo Monetario le principali economie avanzate faranno segnare in media deficit pari a circa il 10/11% della ricchezza prodotta. Più o meno il livello previsto per l’Italia dall’agenzia di valutazione Fitch, che nei giorni scorsi ha abbassato il rating del nostro Paese.
A mali estremi, estremi rimedi, si dice. E così è stato. Con una conseguenza: il debito dei governi, che a livello globale aveva toccato l’anno scorso una quota media del 105% rispetto al Pil, il massimo dall’ultima guerra mondiale, farà un altro salto: la crescita sarà di 6mila miliardi di dollari fino alla bellezza di 66mila miliardi, in media il 122% del prodotto lordo, con l’Italia che supererà, secondo le previsioni, il 155%.
In pratica i debiti diventeranno una montagna. E chi ne ha di più, come noi, resta più soggetto degli altri alle incertezze e alle paure degli investitori internazionali, che a ogni crisi tendono a scappare, rifiutandosi di rinnovare i titoli di Stato se non in cambio di interessi più alti. È questo elemento, la sensibilità del debito ai flussi finanziari globali, che consente a Trump (così come a tutti gli altri presidenti americani) di avere un margine d’intervento più ampio non solo per quanto riguarda l’indebitamento (prima del Covid pari a circa il 100% del Pil): il dollaro è la moneta di riserva per definizione, i titoli di Stato Usa non faticano mai, o almeno così è stato fino ad ora, a trovare acquirenti a buon mercato.
C’È BILANCIO E BILANCIO
La situazione di oggi è talmente grave da venire di solito paragonata a quella di una guerra. E dal punto di vista dei bilanci è sicuramente così. Secondo i dati pubblicati di recente dall’Economist il debito pubblico Usa al termine dell’ultimo conflitto era al 112% del prodotto interno, quello britannico addirittura al 258%. Nel giro di una trentina d’anni, e più precisamente nel 1980, le due cifre si erano però ridimensionate fino ai tranquillizzanti 23 e 43%. Il rientro, avvenuto in una fase di crescita impetuosa dell’economia, era stato ottenuto utilizzando un mix di ricette: un po’ di inflazione, che aveva abbassato il peso reale degli oneri passati, qualche rialzo del livello della tassazione e un po’ di «repressione fiscale», obbligando cioè risparmiatori e istituzioni finanziarie a comprare titoli di Stato a tassi particolarmente bassi. Nessuna di queste strade appare oggi praticabile: il livello dei prezzi non mostra segni di significativo rialzo, alzare le tasse appare in molti contesti improponibile e i vincoli agli investitori sono incompatibili con un mondo globale e la libertà di circolazione del capitale. Resta dunque il problema di come sarà possibile smaltire i debiti accumulati. 
Ma c’è davvero questa necessità? I bilanci pubblici, si dice spesso, non sono come quelli delle famiglie. Debiti e percentuali, che farebbero paura se visti a livello individuale, diventano più sopportabili a livello di sistema. E l’anno scorso fece rumore uno studio di Olivier Blanchard, per anni capo economista del Fondo Monetario e guru della scienza economica, che tutto sommato diceva che il debito pubblico non va demonizzato: «È un male, ma non è una catastrofe. Può perfino essere utile, anche se va usato nella maniera giusta». 
IPOTECA SUL FUTURO
Sostanzialmente, dice Blanchard, avere troppi debiti crea due tipi di problema. Il primo è che equivale a un’ipoteca sulle tasse incassate nel futuro. Una parte più o meno ampia delle entrate statali non può essere sottratta al rinnovo o alla remunerazione dei prestiti accumulati e quindi questo contribuisce a mantenere alto il livello di imposizione. L’altro inconveniente è che i titoli di stato «spiazzano», fanno concorrenza ad altri tipi di investimento, abbassando il livello futuro di produzione e consumo. Oggi però, dice Blanchard, «un debito più alto non porta forzatamente a tasse più alte». I tassi di interesse sono molto bassi e basta che l’economia cresca in percentuale maggiore per ridurre in modo automatico il rapporto tra le due grandezze. 
Basta, o forse sarebbe meglio dire, basterebbe. Visto che se succede il contrario, e cioè il tasso di interesse sul debito è più alto del tasso di crescita dell’economia, a verificarsi è uno spiacevolissimo «effetto palla di neve» e ad aumentare in automatico sono i debiti in rapporto al Pil. È proprio quello che è accaduto in Italia negli ultimi anni e che suscita tanti dubbi sulla a «sostenibilità» del debito italiano tra i nostri frugali vicini del Nord Europa. 
Anche in questo caso, però, non mancano gli ottimisti. Erik Nielsen, capo economista di Unicredit, ha messo di recente a confronto la spesa per il debito e le entrate fiscali del nostro Paese. L’anno scorso abbiamo dovuto mettere da parte il 7,2% delle tasse per pagare gli interessi, contro una media dell’8% negli ultimi cinque anni. Più di Paesi come Spagna o Gran Bretagna, che si situavano tra il 6 e 7%, ma non poi tantissimo. Anche se il debito superasse il 160% non arriveremmo al 9%. Fattibile, dice Nielsen, se si considera che per anni, ai tempi della lira, l’Italia, pagava interessi ben più alti in rapporto alle tasse incassate, con un massimo, che oggi appare incredibile, del 30% nel 1995.
SENTIERO RIPIDO
Certo è che nei prossimi anni l’Italia dovrà camminare su un crinale ancora più sottile di quello affrontato di recente. E a giovarci non saranno nemmeno i riconoscimenti di serietà che ci arrivano, perfino dalla Germania. Nei giorni scorsi le finanze pubbliche italiane sono state oggetto di una lunga analisi da parte di Gerald Braunberger, uno dei direttori della Faz, quotidiano di Francoforte, cassa di risonanza dell’establishment tedesco. 
Nel pezzo si definisce «ingannevole» l’impressione che la Penisola «finanzi la dolce vita (in italiano) con i suoi debiti in eccesso». Anzi si sottolinea la propensione al risparmio degli italiani, testimoniata dai bassi livelli di indebitamento privato, e la regolarità nel far segnare avanzi primari di bilancio (la differenza tra entrate e uscite pubbliche ottenuta scorporando quanto speso per gli interessi). Poi però si fa il paragone con la Germania: dalla fine degli anni Novanta fino al 2008 (era il periodo in cui Berlino veniva definita il «malato d’Europa») i due Paesi sono andati di pari passo. Dopo la crisi del 2008 la Germania è ripartita, la Penisola si è completamente bloccata. «È questo il vero problema dell’Italia: la mancata crescita economica». Il futuro, però, è ancora aperto: «Ci potrà essere un lieto fine», conclude Braunberger, «se la Penisola saprà cogliere la crisi come un’opportunità per riflettere sul suo modello economico e se saprà vedere le sue debolezze non solo come frutto di un’ostilità internazionale ai suoi danni». Ma può anche capitare che il «tiro alla fune» oggi in corso nel Paese «possa terminare con tutti i partecipanti che finiscono a pezzi sul terreno».