la Repubblica, 4 maggio 2020
Gli Stati Uniti accusano Pechino
NEW YORK – Il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, è convinto che ci sia la “pistola fumante”: la prova che inchioda la Cina alle sue responsabilità sul coronavirus. Più di tre mesi di lavoro dell’intelligence americana, in collaborazione con i servizi segreti di diversi Paesi alleati dall’Australia alla Francia, sono l’origine della sua dichiarazione di ieri. È un gesto gravido di conseguenze, che apre la possibilità di richieste per risarcimenti danni nei confronti di Pechino, o di nuove sanzioni commerciali a cui Donald Trump ha già fatto allusione. Senza escludere “le opzioni nucleari”: una levata dell’immunità sovrana che protegge la Repubblica Popolare; o un rifiuto di rimborsarle i Buoni del Tesoro americani che detiene nelle riserve della sua banca centrale. Le relazioni tra Washington e Pechino scivolano velocemente verso una crisi senza precedenti dal 1989, ai tempi del massacro di Piazza Tienanmen che mise fine alla rivolta democratica. La cronistoria di questa indagine – una vera e propria “istruttoria” con Xi Jinping nella parte dell’imputato numero uno – risale al mese di gennaio. È un periodo in cui Trump sta minimizzando il pericolo del coronavirus, e al tempo stesso elogia Xi Jinping. Ma non la pensa così Anthony Ruggero, che dirige la sezione specializzata sulle armi di distruzione di massa (e quindi bioterrorismo, guerre batteriologiche) all’interno del National Security Council, la cabina di regìa strategica della Casa Bianca. È Ruggero il primo a mettere in allerta la comunità dell’intelligence, per saperne di più sull’origine esatta del coronavirus. Trova un alleato prezioso in Matthew Pottinger: ex corrispondente del Wall Street Journal a Pechino durante la Sars, oggi numero due del National Security Council, uno degli uomini che hanno maggiore influenza sulla politica cinese di Trump. Pottinger dà ordine a tutte le agenzie d’intelligence americane di indagare sul complesso di laboratori epidemiologici di Wuhan. Quei laboratori sono una “vecchia conoscenza”, per tante ragioni. Per anni le loro ricerche – originate dalla Sars – hanno ricevuto finanziamenti dagli Stati Uniti e dalla Francia. Almeno uno di quei laboratori è finito sotto accusa da parte degli stessi scienziati cinesi: un documentato rapporto pubblicato da Yuan Zhiming sul Journal of Biosafety and Biosecurity denunciava «carenze e negligenze» proprio negli esperimenti sui contagi da animale a uomo. Altri due scienziati cinesi avevano lanciato l’allarme su incidenti di laboratorio nel 2017 e 2018. A conferma che questa mole di prove a carico non è una teoria del complotto fabbricata dall’Amministrazione Trump per coprire gli errori iniziali del presidente, la pista del laboratorio di Wuhan viene ripresa da un giornale d’opposizione, il Washington Post, a fine marzo. L’intelligence ha una sponda in campo progressista, quando ne scrive l’opinionista David Ignatius suffragando i sospetti sul laboratorio di Wuhan. Il 27 marzo la US Defence Intelligence Agency, servizi di spionaggio agli ordini del Pentagono, cambiano la propria valutazione sul Covid 19 e includono l’ipotesi di «incidente e grave negligenza» a fianco alla teoria tradizionale sul contagio in un mercatino di selvaggina. Nel frattempo a fine marzo i servizi segreti presentano alla Casa Bianca nuovi indizi: questi sono estratti da intercettazioni di conversazioni ai vertici delle autorità cinesi, e spingono a «riprendere in considerazione» la pista del coronavirus che risale al laboratorio. Quasi subito l’intelligence ha scartato l’ipotesi bellica e dolosa, cioè di un virus fabbricato, e propende invece per l’incidente. Richard Grenell, direttore della National Intelligence che coordina tutte le centrali di spionaggio, ordina che le indagini sull’origine del virus abbiano la massima priorità. Il 7 aprile Grenell convoca i capi dei vari servizi e li mette sotto pressione per avere notizie, ma in quella data nessuno gli offre certezze. Passano tre settimane, ed è giovedì 30 aprile che per la prima volta Trump annuncia: «Ho delle prove, ma non posso dirle». La dichiarazione di Pompeo conferma quella del presidente, anche sulla scorta di un rapporto firmato dai “Cinque Occhi”: così vengono definite le comunità d’intelligence dei Paesi anglofoni alleati (Usa, Canada, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda). Il rapporto ricostruisce nei dettagli tutta la campagna di disinformazione orchestrata da Xi Jinping. Oltre alle note bugie e omertà iniziali sul contagio, vi figura la scomparsa di alcuni teste chiave che hanno avuto accesso al laboratorio di Wuhan. Alle accuse del ministero degli Esteri di Pechino che lo descrive come il peggior nemico della Cina, Pompeo risponde: «Dateci accesso al laboratorio di Wuhan». È là che si trova la “pistola fumante”, ne è ormai convinta almeno una parte dell’intelligence e dell’Amministrazione Trump.