La Stampa, 3 maggio 2020
Ritratto di Jonathan Demme
«Per il "Silenzio degli innocenti" stavo per scritturare Sean Connery e Michelle Pfeiffer» mi disse Jonathan Demme, «ero convinto che fossero perfetti». Parlava di cinema con una passione trascinante, contagiosa, e ti fissava come se fosse impensabile non provare la stessa emozione. «Ora il film sembra inconcepibile senza Anthony Hopkins e Jodie Foster», continuò, «e questo la dice lunga su come il mio mestiere sia basato spesso su scelte fatte all’ultimo momento, a volte per puro caso: sarebbe interessante fare una storia del cinema parallelo con tutte le prime scelte, come Ronald Reagan in "Casablanca" e Tom Selleck in "Indiana Jones"».
Conosceva benissimo il cinema italiano e aggiunse «per non parlare di Marlon Brando in "Senso", Laurence Olivier nel "Gattopardo" o Alberto Sordi nel "Sorpasso"». Da grande narratore sapeva quando fermarsi per creare la suspense, e toccò a me chiedergli: «Poi cosa è successo con "Il silenzio degli innocenti"?». Sorrise e continuò: «Mi sono accorto dell’errore che stavo per commettere quando ho visto Connery e la Pfeiffer insieme, bravissimi, ma troppo belli, e con una carnalità e una sensualità troppo forte. Hannibal Lechter non ha alcun interesse nel sesso, e Clarice Sterling è segnata da traumi psicologici che ne hanno frustrato ogni impulso, salvo quello che la spinge a cercare criminali. I film che funzionano» concluse «sono quelli in cui si trova la giusta alchimia in ogni elemento».
Non c’era nulla di pedagogico nel suo modo di esporre, né tantomeno di presuntuoso, amava condividere, e soprattutto apprendere: era affamato di tutto ciò che lo potesse nutrire intellettualmente. L’ho conosciuto in occasione di una retrospettiva al Lincoln Center dedicata a Gillo Pontecorvo, che considerava un maestro indiscusso. Venne il giorno dell’inaugurazione insieme a Dustin Hoffmann e alla fine della Battaglia di Algeri trascinò la platea in un applauso interminabile. Poi rimase a cena per omaggiare personalmente il regista italiano, e per tutta la sera volle sentire dalla sua voce i retroscena del film, ripetendo: «è un capolavoro assoluto, Gillo, oggi nessuno è in grado neanche di pensare un film come quello».
Sia lui che Hoffmann erano emozionati come due principianti e trattennero sino a tardi Pontecorvo, stremato per il jet lag, ma commosso da tanta attenzione. Jonathan era un uomo profondamente di sinistra, e la personalità del regista italiano rappresentava per lui un ideale assoluto, specie da quando aveva saputo che Pontecorvo aveva combattuto nella guerra partigiana.
Nel suo entusiasmo aveva inoltre un ruolo fondamentale l’amore per il cinema italiano, in particolare quello nato negli anni sessanta: era cresciuto vedendo i film di Olmi, Bellocchio e Bertolucci, del quale era diventato molto amico. Venerava Il Conformista non meno della Battaglia di Algeri, e, in occasione di un incontro pubblico raccontò come avesse imitato la sequenza dell’uccisione di Dominique Sanda nel suo remake di Manchurian Candidate. «Purtroppo la mia scena non è neanche lontanamente paragonabile a quella di Bernardo, come del resto il film».
Era assolutamente sincero nella sua umiltà e generoso con gli amici: una volta mi telefonò sconcertato perché aveva scoperto che La grande strada azzurra, il primo film di Pontecorvo, non era mai stato distribuito negli Stati Uniti: «È impossibile, è una vergogna, dobbiamo fare qualcosa», mi disse, e fece lo stesso con Io e te l’ultimo di Bertolucci. Mise a disposizione il cinema che gestiva a Nyack, la cittadina residenziale nella quale abitava, e si spese in prima persona affinché tutti potessero vedere «due film di due grandi maestri». Aveva la stessa generosità nei confronti dei giovani registi, e tra i cineasti italiani prediligeva Emanuele Crialese, che riteneva il più vicino alla sua sensibilità: «"Terraferma" è un film importante da un punto di vista sociale e politico, ma quello che conta è che è artisticamente compiuto». L’amore per la cultura italiana generò un’avventura inaspettata del quale gli sarò sempre grato: insieme a Davide Azzolini lo invitammo a partecipare al Festival di Napoli, del quale Davide era direttore artistico. Jonathan accettò a condizione che gli presentassimo Enzo Avitabile: ne aveva ascoltato un brano alla radio ed era diventato un suo fan. La richiesta ci lasciò a bocca aperta, e rese felice Avitabile. Non dimenticherò mai l’emozione sul volto di Jonathan quando conobbe il musicista napoletano, e l’entusiasmo con cui sposò l’idea di Davide di realizzare un documentario su Avitabile.
Anche in quella occasione, e ancora una volta senza alcuna spocchia, Jonathan mi parlò di quanto fosse importante, nel suo mestiere, «seguire con dedizione le proprie passioni e cogliere al volo le opportunità». Pochi registi al mondo hanno saputo utilizzare la musica con analogo talento, basterebbe pensare al brano dell’Andrea Chenier in Philadelphia, o, nello stesso film, alla canzone di Bruce Springsteen.
Jonathan aveva un animo rock, e nei confronti di un brano, o di un concerto, si poneva con un approccio da musicista prima ancora che da regista: quanto ha realizzato con Neil Young, i Talking Heads, Suzanne Vega, Justin Timberlake, gli UB40 non ha nulla da invidiare a quello che ha diretto nel cinema o nel documentario. Ha fatto tanta gavetta, Jonathan, e ha avuto il privilegio di farla alla scuola di Roger Corman, dal quale ha imparato a girare in tempi strettissimi e con budget risicati.
È stato Corman a insegnargli che la prima regola in quel mondo di ombre è la professionalità, e che è possibile essere eclettici sviluppando insieme una dimensione d’autore. Nei suoi film è riconoscibile sempre una personalità forte e originale, che prescinde l’uso magistrale dei primissimi piani o lo sguardo in macchina dei personaggi. Il minimo comune denominatore di film diversissimi quali Il silenzio degli innocenti, Philadelphia, Qualcosa di travolgente, Beloved e Melvyn & Howard è il suo approccio umanista: Jonathan riusciva a identificarsi completamente nella psiche dei suoi personaggi, a volte innamorandosene. È questo il motivo per cui gli interpreti hanno dato con lui sempre interpretazioni straordinarie: otto hanno ricevuto una candidatura all’oscar e quattro hanno poi vinto la statuetta. Hopkins è formidabile nel film, ma nella scena più famosa e terrorizzante devo moltissimo al modo ravvicinato in cui viene inquadrato. E lo stesso vale per Jodie Foster che lo ha definito «energia allo stato puro, senza essere mai convenzionale».
Ed è lo stesso motivo per cui gode di una reputazione leggendaria tra i registi giovani: sia Luca Guadagnino che Brady Corbet gli hanno dedicato il loro film più recente, come anche Paul Thomas Anderson, che lo considera il suo mentore e ne parla tuttora con le lacrime agli occhi. Credeva nell’impegno civile, Jonathan, al punto da aver realizzato degli spot senza compenso per cause nobili, e considerava Hollywood, della quale conosceva assurdità e storture, uno strumento per veicolare messaggi importanti: Philadelphia fu il primo film di una major in cui si parlò di Aids. Aveva un modo sempre affabile e sorridente, e detestava le formalità: indossava spesso improbabili camicie hawaiiane, alle quali d’estate abbinava i sandali. Riteneva che il cinema ben fatto, anche quello di puro intrattenimento, potesse rendere il mondo migliore, e dedicava molte delle sue energie per aiutare la popolazione più povera di Haiti, come testimonia anche il suo magnifico documentario The Agronomist. Ha reagito sorridendo anche al male mortale che lo ha ucciso in meno di un anno, continuando a frequentare i festival e a progettare film e documentari.
L’ultima volta che l’ho visto l’ho intervistato sui grandi registi italiani: era debole e magro, ma parlava con entusiasmo. Quando mi salutò mi disse: «Nel mondo c’è troppa ingiustizia per cui ci si possa accontentare, e troppa bellezza da ricercare ed esaltare».